La
situazione agli inizi del IX secolo.
Agli
inizi del IX secolo Formia mostrava i segni tangibili di un irreversibile
declino, mentre Gaeta accentuava la propria ascesa iniziata da
poco meno di un secolo.
La decadenza di Formia è stata spesso correlata nella storiografia
all'improvvisa apparizione dei Saraceni, ma in realtà il
centro demico viveva la più generale crisi delle città
meridionali.
Nell'arco di un paio di secoli si era modificata la composizione
dell'agglomerato sociale e si era assistito al tracollo del tessuto
economico.
Gaeta appariva il nuovo centro propulsore del Golfo: il pontefice
Adriano I (771-795) nel maggio 778 ricorda gli "habitatores
castri Caietani" ed il vescovo formiano Giovanni nell'830
stilava i propri documenti nel "deo serbato kastro kaietano",
così come riferito dal Codex Diplomaticus Cajetanus (=
C.D.C., I, II). L'indifferenza con la quale il vescovo si chiamasse
alternativamente formiano o gaetano appariva una questione puramente
formale. Dall'867 il vescovo Ramfo assumeva stabilmente il titolo
di "episcopus sedis (?) sanctae gaietane ecclesie" (C.D.C.,
I, XIII). Per cui anche la magistratura religiosa già dal
787 aveva ritenuto opportuno recarsi nel castro di Gaeta e da
allora non si era più spostata nella cittadina formiana
per esercitare le funzioni connessi all'attività episcopale.
A cavallo della metà del IX secolo i Musulmani sbarcarono
sui lidi del sinus Formianus avendo facile giuoco della città;
Gaeta resistette agli assalti, avendo alle spalle un'efficiente
compagine cittadina, militarmente organizzata, capace di intessere
rapporti anche solidi con altre eminenti città del meridione
d'Italia.
I Saraceni si trovarono alle porte di Gaeta nell'846, secondo
la narrazione di Leone Ostiense: provenendo da Roma, violate le
basiliche dei santi Pietro e Paolo, percorsero l'Appia e, dopo
aver messo a ferro e fuoco Fondi, s'accamparono e posero l'assedio
al castro. Probabilmente i Saraceni avevano già conosciuto
le coste del Formianum in brevissime e rapidissime scorribande.
Notizie sulla presenza dei Saraceni nel Golfo si rinvengono in
due documenti. Nell'867 (C.D.C., I, XIII) il vescovo Ramfo deliberava
su una lite pendente con il chierico Mauro e l'onest'uomo Giovanni
circa i coloni Botto e Palumbo, riscattati dalle mani dei Musulmani
con le rispettive mogli. Nel 997 (C.D.C., I, XCVII) il vescovo
Bernardo cedeva la chiesa dei SS. Cosma e Damiano, posta fuori
della cinta urbana, ai preti e canonici romani, ricordando che
"pro nostris peccatis de suprascripte civitate venerunt gens
hagarenorum ipsa hecclesia diruerunt et omnia sua pertinentias
deinde destruerunt".
Ma è possibile certificare che Formia sia stata distrutta
dai Saraceni? Occorre analizzare il sistema delle fonti.
Nel Codex il primo documento che accenna al tragico evento è
del 1058 (C.D.C., II, CCVI). Si tratta della donazione della chiesa
di S. Erasmo da parte del principe di Capua Giordano all'abate
Desiderio, ma si tratta in realtà di un falso.
Nel 1062 (C.D.C., II, CCXVI) la donazione di alcune terre all'abate
Marino del monastero di S. Erasmo del 1062 ricorda che la chiesa
"constructa esse videtur in civitate furmiana iam diruta".
Nel Codex così a partire dalla seconda metà dell'XI
secolo il tragico evento viene rammentato ininterrottamente fino
al 1109 con la sola eccezione di due documenti.
Nella Rubrica delle Carte appartenenti al Monastero di S. Erasmo
di Castellone di Gaeta che si conservano nell'Archivio del Monastero
di Monte Oliveto in Napoli fatta nel 1784 (RdC), una raccolta
settecentesca di regesti di documenti (1021-1764) custoditi nel
cenobio formiano, compilata con ogni probabilità per fini
fiscali, si cita la distruzione di Formia, ma in epoca alquanto
tarda.
Nel 1137 (RdC, 3) è ricordata la "concessione, donazione
e assegnamento" fatta da Gio. sacerdote e abbate del monastero
di S. Erasmo "posto nella distrutta Città di Formia".
La stessa fraseologia ricorreva nel 1145 (RdC, 6).
Un primo dato emerge con chiarezza: solo a partire dal 1058/1062
si riferisce di una distruzione di Formia: la notizia viene riportata
fino al 1237 (RdC, 14).
Il Codex offre ancora, seppure indirettamente, qualche informazione
sullo stato di conservazione della città di Formia tra
IX e X secolo. La trasformazione della cattedrale in patronato
della famiglia ducale dei Docibile, la necessità di riparare
le mura urbane ed il porto, l'attestazione della presenza di cittadini
formiani residenti nel castro gaetano e del vescovo sono segnali
delle difficoltà in cui versava l'antica città romana.
Tra le fonti letterarie la Chronica di Leone Ostiense, precisa
e dettagliata nei riferimenti sulle distruzioni operate dai Saraceni,
le opere di Anastasio Bibliotecario, di Erchemperto, l'anonimo
estensore dei Chronica Sancti Benedicti Casinensis non ricordano
la distruzione di Formia.
Anche tra le fonti arabe raccolte ed ordinate da M. Amari viene
menzionata Gaeta ma Formia è ignorata.
La Passio S. Erasmi (1078/1088), redatta dal monaco cassinese
Giovanni da Gaeta, poi papa con il nome di Gelasio II, stilata
dopo aver consultato ed interpretato testi più antichi
tra loro contraddittori, rammenta la traslazione delle reliquie
di Erasmo, avvenuta a Gaeta "cum ab Agarenorum exercitu destructæ
fuissent Formiæ". Il benedettino Giovanni da Gaeta
quasi certamente aveva visionato nello scriptorium cassinese i
testi degli autori delle cronache.
Dalla collazione delle fonti emerge che soltanto la Passio dichiara
la distruzione della città, circa due secoli dopo l'avvenimento.
La data dell'evento è collocata tradizionalmente all'anno
846. Ma bisogna pure dire che nella Passio S. Erasmi, la fonte
più antica che ricorda la distruzione di Formia, non vi
è traccia della data.
Le prime informazioni cronologico sul tragico assalto saraceno
lo collocano all'856. Nel 1511 Flavio Biondo aveva assegnato la
distruzione di Formia all'856. Il Capaccio esprimeva la medesima
opinione: "Portus, atque aliarum rerum nomina Formiae amiserunt
cùm a Sarracenis destructae anno 856 in Cajetam fuerunt
translatae".
Secondo la Translatio corporis S. Erasmi Episcopi et Martyris
ex Formiis Cajetam, compilata nel XVII secolo, la distruzione
della città era avvenuta nell'856 ai tempi di papa Gregorio
IV e del patrizio Giovanni il Grande. Nel manoscritto, conservato
presso la Biblioteca Nazionale di Napoli, affiorano più
anacronismi, tra i quali in modo evidente l'impossibilità
di collocare contemporaneamente all'856 (ed anche all'846) papa
Gregorio IV (827-844) ed il patrizio Giovanni il Grande (877-933/934).
Così come nella Passio il rinvenimento delle reliquie di
s. Erasmo viene collocato a distanza di circa trent'anni dalla
distruzione di Formia (876/886) sotto il pontificato di Giovanni,
l'episcopato di Bono ed essendo patrizio di Gaeta Docibile, figlio
di Giovanni già defunto. Anche in quest'affermazione di
Gelasio II si ritrovano evidenti anacronismi: l'ipata Giovanni
morì dopo il 933. Il pontefice Giovanni X (914-928) era
già defunto prima ancora del duca gaetano. Giovanni XI
fu papa tra 931 e 935. Ma il vescovo di Gaeta Bono è attestato
a partire dal 933.
La Translatio coincide quasi totalmente con la Passio S. Erasmi
mantenendo l'intelaiatura, ma distaccandosene in alcuni punti,
quali l'aggiunte dell'anno della distruzione (856) o le omissioni
di brevi passi.
Posteriore al pontificato di Damaso II (1048) anche l'altra Passio,
menzionata dal Papebroch negli Acta Sanctorum, simile alla precedente,
non contiene date.
Completa il panorama delle fonti un Breve raguaglio di quel che
se desidera dal Monasterio di Santo Erasmo di Castellone di Gaeta
per accrescimento delle nostre historie (sec. XVII), bozza servita
di base per le Historiae Olivetanae, composte dal Lancellotti
al fine di ricostruire storia e consistenza dei cenobi olivetani
della penisola italiana. In essa si sottolinea che Formia "fù
distrutta da gli Sarraceni l'anno 856 nel qual tempo fù
trasportata da Gregorio P.P. la Sede Vescovale nel luogo, dove
hora è la Città di Gaeta".
Solo a partire dalla fine del XVII secolo avevano preso corpo
l'ipotesi sulla datazione della distruzione da collocare all'846.
Fiorirono singolari congetture: alcune spostavano l'avvenimento
cruento a date anteriori o appena susseguenti. Spesso la Chronica
di Leone Ostiense veniva letta in modo impreciso, travisata o
piuttosto si utilizzava l'estrapolazione proposta dal cardinal
Baronio.
Tra XVIII e XIX secolo gli anacronismi della Passio gelasiana
non furono sufficienti per una revisione critica della cronologia.
Eppure il Di Meo nell'Apparato cronologico agli annali del Regno
di Napoli della mezzana età aveva avvisato il lettore sulle
contraddizioni presenti e prudentemente si limitava ad elencare
le date proposte.
Dopo le fonti scritte sono stati esaminati i risultati dei recenti
scavi archeologici, condotti nella ex cattedrale di S. Erasmo
in Formia, che hanno smentito l'ipotesi di una distruzione attorno
ai secc. IX-X del complesso ecclesiale situato extra moenia.
Sembra che la tradizione della distruzione di Formia abbia avuto
origine attorno alla metà dell'XI secolo, mentre più
antica (999) è la considerazione della distruzione del
Borgo di S. Cosma di Gaeta (C.D.C., I, XCVII). La narrazione della
Passio è stata utilizzata nell'omiletica durante la festa
del patrono cittadino. Compilata in ambiente benedettino nel momento
più alto della produzione culturale cassinese, ha avuto
notevole diffusione nel contesto delle vicende ducali di Gaeta.
Il problema si presenta piuttosto complesso ed articolato nei
suoi elementi costitutivi: è possibile dare credito alla
tradizione della distruzione di Formia se tutti i documenti più
antichi del Codex (particolarmente quelli del IX-X secolo) tralasciano
di riportare la notizia come, invece, sarà uso pressoché
costante dopo la seconda metà dell'XI secolo? E la narrazione
di Leone Ostiense, precisa nei riferimenti concreti, perché
omette un dettaglio di tale rilievo che riguarda una diocesi di
antica origine e di indubbia importanza proprio in occasione delle
questioni sorte per il recupero da parte del Papato di parti cospicue
del Patrimonium Sancti Petri?
Formia faceva parte del Patrimonium. I Gaetani, ai quali premeva
che il territorio formiano, nel quale risiedeva la ricchezza e
la speranza di ampliamento del ducato, non venisse distrutto o
reso impraticabile per lungo tempo, ritennero opportuno stringere
un patto con i Saraceni.
Formia aveva subito verosimilmente danni durante le scorrerie,
ma furono i danni tipici della razzia, ma il Patrimonium, che
costituiva il nerbo economico del reddito a sostegno dell'attività
mercantile gaetana, rimase sostanzialmente intatto. L'accordo
tra Gaetani e Saraceni era stato favorito dalla tentennante politica
papale di Giovanni VIII e dal timore di intrusioni dei principi
capuani. I Saraceni, alimentati dalla cospicua presenza di Arabi
siciliani, si attestarono così in un punto del territorio
per procedere nelle incursioni verso l'interno dell'Italia centro-meridionale,
trasformando il primitivo insediamento nella colonia stabile del
rîbat. Proprio in due distinte operazioni belliche assalirono
con successo le grandi abbazie di S. Vincenzo al Volturno e di
Montecassino.
N. Cilento, accogliendo la suggestione di Monneret de Villard,
ha spiegato la disponibilità ad accordi con i Saraceni
da parte degli ipati di Gaeta Docibile e Giovanni, ma anche dei
duchi napoletani e dei prefetti di Amalfi, con la loro scarsa
conoscenza del mondo islamico, ritenuto un'espressione del cristianesimo
degenerato dalla forma ariana.
Solo con l'adesione alla lega papale di Giovanni X, che sconfisse
i Saraceni al Garigliano nel 915, i Gaetani ebbero riconosciute
le prerogative sul Patrimonium ricadente nel Formianium. Prova
ne è il giuspatronato della famiglia dei Docibile sulla
chiesa di S. Erasmo a Formia e delle rendite che provenivano dalla
massa sancti Erasmi, creata attorno al VII secolo.
Tuttavia la politica di alienazione dei beni ecclesiastici della
diocesi non durò oltre la fine del X secolo. Il vescovo
Bernardo (997-1047), figlio di Marino e fratello di Giovanni IV,
duchi di Gaeta, operava un'inversione di tendenza rispetto al
passato. Tentò il recupero delle proprietà ecclesiastiche
(con battaglie anche legali contro i suoi stessi familiari non
sempre conclusesi felicemente) e la provvista delle chiese abbandonate
o trasformate in proprietà private. Il suo atteggiamento
metteva paradossalmente a nudo le difficoltà della famiglia
ducale non più idonea a garantire la diretta successione
dinastica e l'unità ducale.
Formia subiva in quegli anni le tensioni proprie di una terra
di confine nel più ampio contesto dei conflitti regionali
dello scacchiere centro-meridionale.
Ma se in termini politico-economici si può giustificare
la necessità della salvaguardia del territorio e della
città di Formia, resta da capire il senso delle affermazioni
contenute nella Passio.
Il tempo della redazione, l'indicazione delle circostanze del
trasporto delle reliquie di Erasmo a Gaeta, i trent'anni trascorsi
prima del ritrovamento delle ossa del martire rimandano a precise
tipologie narrative connesse con la nascita del culto del santo
patrono. Gregorio di Tours aveva raccomandato il culto delle reliquie
e Gregorio Magno aveva fatto edificare le cripte semianulari per
la loro raccolta in una cella memoriae, affinché non andassero
disperse o violate. Nella ex cattedrale di S. Erasmo è
stata rinvenuta una cripta semianulare. Al vescovo era fatto obbligo
di tutelare le preziose reliquie, dalle quali traeva giustificazione
la titolarità della sua cattedra.
Formia: chiesa ex
cattedrale di S. Erasmo con attigua cappella di S. Probo
Il vescovo doveva autorizzare il trasporto delle reliquie a meno
di un precipitoso e improvviso abbandono della cattedrale. Ma
era sua responsabilità tornare alle reliquie costatandone
l'integrità. Gravi sanzioni venivano comminate a chi osava
violare le reliquie.
Non sembra davvero possibile che l'intera serie dei vescovi tra
l'845 ed il 919 abbia potuto dimenticare l'osservanza del culto
e custodia delle reliquie, già in auge e "codificata"
in età merovingica.
Nessuno ha tramandato notizie sulla tutela delle reliquie o sul
loro recupero: in soli trent'anni dalla distruzione se ne era
obliato il ricordo, così afferma la Passio.
La Passio, scritta a notevole distanza dal rinvenimento delle
reliquie, faceva proprio il contenuto di un'iscrizione inserita
sopra i gradini dell'altare della cattedrale di Gaeta: "In
hoc loco inventum est Corpus Sancti Martyris Erasmi illibatum,
et integrum temporibus Joannis Papæ a Bono cajetano Episcopo".
Ma della lastra nessun altro ha ricordato l'esistenza.
Nella Passio confluiscano diverse testimonianze. Il monaco Giovanni
da Gaeta era vissuto al tempo dei lunghissimi episcopati di Bernardo
(997-1047) e di Leone IV (1049-1089). In particolare Leone IV
presenziò alla solenne consacrazione della chiesa di S.
Benedetto a Montecassino nel 1071. I due vescovi, esponenti di
spicco della famiglia ducale, dedicarono le loro energie al recupero
dei beni ecclesiastici incamerati o confusi con quelli della famiglia
dei duchi o in mano a privati o resi, comunque juspatronato.
La narrazione del monaco Giovanni, costruita secondo gli schemi
classici narrativi delle passiones, sembra voler giustificare
un modello cittadino, nel quale i duchi avevano approntato la
costruzione della cattedrale con e sulle reliquie, riconoscendo
il ruolo sacrale cittadino del vescovo ed il vescovo, a sua volta,
garantiva protezione a nome del patrono, benedizioni, assenso
alla città così stratificata e socialmente gerarchizzata.
Si proponeva il modello della società cristianizzata modellata
sulla figura del santo patrono. La Passio, utilizzando la 'leggenda
erasmiana', si poneva come giustificazione del nuovo patto.
In questo quadro gli anacronismi ed il dato squisitamente storico
acquistano minor rilevanza rispetto alle finalità "letterario
politiche".
Al tempo della compilazione di Giovanni (1078/1088) la chiesa
di S. Erasmo era stata da poco acquisita dai Benedettini cassinesi
assecondando il progetto dell'abate Desiderio, finalizzato al
controllo di uno sbocco sul mar Tirreno. Ma questo accadde anche
per un più antico legame della Comunità benedettina
con la ex cattedrale testimoniata in età più antica.
La Passio gelasiana nasceva da una profonda esigenza spirituale:
la giustificazione del ruolo del vescovato in rapporto al governo
della città d'origine dell'autore e la motivazione dell'acquisto
della chiesa formiana (custode originaria delle reliquie del santo
patrono) dalla famiglia ducale.
Due esigenze venivano così saldate e racchiuse nella narrazione:
lo spostamento delle reliquie e del Vescovato, la nascita del
culto del santo patrono.
La prima concerneva la permanenza a Gaeta del vescovo, attestata
sin dall'VIII secolo. Ma bisognava motivare il passaggio delle
reliquie da Formia a Gaeta: ecco allora l'esigenza di assicurare
la 'distruzione' del luogo ecclesiale (la chiesa in quanto cattedrale)
della sepoltura e custodia, atteso il fatto dell'impossibilità
di una sicura conservazione e di un adeguato culto comunitario.
D'altronde il santo defunto era ancora parte dell'organizzazione
ecclesiastica, per il qual motivo se la Curia si spostava, identica
sorte toccava alle reliquie. L'autore della Passio accetta questa
'norma' ma aggiornava il contesto temporale al periodo dell'incursione
saracena su Roma con la violazione delle basiliche erette sulle
tombe degli apostoli Pietro e Paolo in una sorta di assimilazione.
Circa la seconda esigenza, l'attestazione del culto cittadino
ufficiale del santo patrono, questo può farsi risalire
al momento della titolazione della cattedrale. Nel 981 (C.D.C.,
I, LXXX) la chiesa e l'episcopato erano sotto il titolo della
Beata Vergine Maria; ma già nel 995 (C.D.C.,I, XCIV) Giovanni
risulta essere archipresbitero della "Sancte Catholice et
Gaietane aecclesie Sancte Marie et Sancti Erasmi". Pertanto
il titolo erasmiano risale al periodo intercorrente tra il 981
ed il 995.
Proprio nel 981 (C.D.C., I, LXXIX) la nobiltà cittadina
collaborava attivamente alla definizione dei conflitti giuridici
e via via si collocava a fianco dei duchi. Nel 999 (C.D.C., I,
CI) alla presenza del messo imperiale Nottichiero nel palazzo
del governo della città presenziavano "quamplures
maiores natu et minores Gaietae".
È in questo lasso di tempo che venne sanzionato il pubblico
culto di Erasmo ed il suo patrocinio sulla città, testimoniato
dalla monetazione con l'effigie del patrono. È il periodo
nel quale si rendeva visibile il nuovo assetto raggiunto sotto
i duchi Giovanni II, Gregorio, Marino II e Giovanni III.
La Passio gelasiana era stata compilata durante il periodo della
dipendenza di Gaeta dai principi normanni di Capua Riccardo I
e Giordano I. L'autore rievocava il periodo dell'indipendenza,
esaltandola con il coniugare l'epopea sorta con la venuta saracena
con l'epopea dell'autonomia ducale. Per di più l'autore
era conscio del fatto che la Passio sarebbe stata letta in chiesa
durante l'ufficio divino e nelle celebrazioni, utilizzata come
omiletica così come accadeva già in età carolingia,
un uso che era giunto a Roma attorno all'VIII secolo. Non era
una novità: gli autori delle Passiones perseguivano anche
scopi eminentemente politici, ed anzi talvolta tutto il culto
del santo nel suo complesso assunse aspetti chiaramente politici.
In sintesi: la situazione politica e la necessità di incrementare
la ricchezza fondiaria, su cui si basava il commercio mercantile
ed il connesso conseguente sviluppo della città e ducato,
legata al destino del Patrimonium, il nuovo equilibrio cittadino
gaetano tra potere civile ed ecclesiastico mediato dalla creazione
della figura del santo patrono, la documentazione incerta e storicamente
poco affidabile sono il quadro complessivo nel quale va inserito
il 'mito' della distruzione di Formia, 'modellata' nel periodo
di maggiori attese per il ducato di Gaeta. La morte della città
del Golfo ad opera dei Saraceni, degli 'infedeli', garantiva il
distacco con il passato (l'opposizione al Papato), dichiarava
l'affermazione definitiva di una nuova civitas (Gaeta), attestava
la predominanza del duca sulle sue terre extra urbiche (acquisizione
della chiesa di S. Erasmo alla famiglia ducale). La distruzione
era in realtà la divisione del territorio formiano, la
perdita di autonomia e unità. Ed è straordinario
che Passio gelasiana (1078/1088) e Codex (1058/1062) in quasi
perfetta contemporaneità inizino a parlare della dissoluzione
dell'antica città del Golfo.
L'operazione di collage di tradizioni diverse e di 'traslazione
temporale' delineata da Giovanni da Gaeta aveva come finalità
attraverso la lettura delle passate vicende gaetane quella di
rinsaldare l'orgoglio dell'unità cittadina nel periodo
turbolento nel quale viveva, che sfociò attorno al 1092
nella cacciata del duca Rinaldo Ridello, figlio di Goffredo, della
dipendenza capuana, e quella proclamazione di Landolfo dei conti
di Suio, discendente della famiglia dei Docibile, a duca di Gaeta.
Nella Passio vengono così a fissarsi l'evoluzione di un
progetto ecclesiologico (il programma di distacco dalla famiglia
ducale continuato dal vescovo Leone IV, successore di Bernardo)
e la nuova situazione politica gaetana.
La
frantumazione in borghi.
L'occupazione
dei Saraceni dei colli prospicienti la costa di ponente del lido
di Formia determinava il definitivo tracollo dell'unità
cittadina, similmente a quanto accaduto alla Capua romana: alla
sua rovina corrispondeva l'ascesa della nuova città capuana
sul Volturno. L'antica Capua ri-nasceva sulle rovine romane sotto
forma di borghi separati (Berelais, S. Maria Maggiore, S. Erasmo,
S. Pietro).
L'accostamento non appaia del tutto casuale: Capua e Gaeta determinarono
i destini di larga fetta del territorio ausonico-aurunco. Le due
nuove entità demiche, ertesi a potenti autonomie, si contesero
il dominio del vasto comprensorio tra Lazio e Campania.
Come Capua anche Gaeta assorbì la vicina sede vescovile
di Formia nel graduale processo di spoliazione ed assimilazione
dei distretti confinanti per ridurli a semplici succursali .
L'unità del territorio demico formiano si era sgretolata:
una parte di Formiani rimaneva nel municipium restando a contatto
con il pericolo saraceno, dopo che s'era già verificato
in un passato non troppo lontano un travaso di abitanti nella
sicura Gaeta. La popolazione si era stanziata per parte nell'agglomerato
sito sull'arce, recinto da mura e tramutatosi ben presto in un
castello murato, per un'altra parte nella striscia compresa tra
il mare e l'Appia a ridosso di una rada naturale.
Il primo nucleo si denominò Castellone, il secondo Mola.
Rimasero separati per quasi un millennio, sviluppandosi principalmente
l'uno come rocca della civiltà contadina, l'altro come
borgo legato alle attività marittime.
Castellone: via della
Torre e porta dell'Orologio (vista interna).
Il destino di Mola dipese dal reticolo commerciale e di trasformazione,
che le consentiva di mantenere rapporti strettissimi con Gaeta,
soprattutto via mare. La sorte del Castellone veniva determinata
in larga misura dalle vicissitudini dell'antica cattedrale di
S. Erasmo. Dalla chiesa e dal cenobio annesso prendeva avvio una
forma di signoria feudale, ad un tempo spirituale e temporale,
degli abati benedettini prima cassinesi e poi castellonesi.
Nel IX secolo fino alla battaglia del Garigliano del 915, allorché
la lega papale di Giovanni X smantellava il rîbat saraceno,
stanziato sui colli non lungi dal fiume, venivano compiute transazioni
economiche, forse grazie a quel patto di reciproca convenienza
tra Gaetani e Saraceni. Si susseguivano donazioni e locazioni
di terreni a Pagnano sulla strada per S. Maria la Noce, a Mergataro
lungo la direttrice per Maranola, a Mola.
Con Docibile I a capo di Gaeta a partire dall'867 Gaeta aveva
guadagnato un enorme prestigio; Formia, invece, aveva vista frustrata
ogni speranza di autonomia. Entrava così nell'orbita della
capitale del ducato, la quale cercherà di evitare per essa
qualsiasi forma di resurrezione.
Occorreva attendere tempi migliori e soprattutto la magnanimità
dei duchi Docibile II e Giovanni perché si provvedesse
alla riparazione del porto e delle mura nonché della chiesa
di S. Erasmo (934), che, a giudicare dai documenti del Codex (C.D.C.,I,
XXXVI), non aveva subito danni gravi tali da determinarne l'inagibilità.
Questi interventi venivano effettuati a distanza di circa un secolo
dall'incursione saracena.
Dall'analisi dei documenti, tuttavia, ci si accorge che il nome
Formia persisteva ancora a lungo negli atti ufficiali. Il titolo
di civitas rimase fino al 1109 (C.D.C., II, CCLXXXIV) (secondo
i dati emersi dal Codex) e fino al 1145 (RdC, 6; 14) (secondo
le notizie desunte dalla Rubrica delle Carte).
Gaeta consentì alla oramai innocua Formia di mantenere
l'inutile formale titolo di civitas. Quando la capitale ducale
cadde nella diretta orbita normanna con Ruggiero II d'Altavilla,
si spense anche l'ultimo ricordo della civitas Formiarum.
Formia:
planimetria della cinta urbica di Castellone.
A metà del secolo XII il toponimo Formia comparve dapprima
con quelli di Castellone e Mola, ora con l'uno ora con l'altro.
Trascorse ancora un cinquantennio ed anche il nome Formia venne
obliato. Difatti nella Rubrica delle Carte all'anno 1143 (RdC,
4) si menziona la chiesa di "S. Erasmo di Castellone",
nel Codex, all'incirca nello stesso periodo (1158) ricorrono le
fraseologie "Monasterium sancti herasmi et ecclesiam sancti
Iohannis in formia" e "Ecclesiam sancti Laurentii ad
molas" (C.D.C., II, CCCXLV e CCCLI).
La chiesa di S. Erasmo di Castellone era officiata da monaci prima
ancora dei Cassinesi: nel 1016 la chiesa risultava possedere un
monastero, di cui era abate il monaco Stefano (C.D.C., I, CXXXII).
I monaci cassinesi in linea con il progetto aligerniano giunsero
presso il monte Caprile, fondando probabilmente il piccolo cenobio
di S. Maria la Noce, risalente nella sua veste architettonica
al X secolo circa, situato extra moenia, così come prescriveva
la consuetudine monastica. Dalla piccola struttura i Benedettini
raggiunsero l'antica cattedrale di Formia, a quel tempo ancora
proprietà della famiglia ducale.
Con tenacia i monaci riportarono la zona alta della civitas romana
(Castellone) nella condizione di poter ospitare maggiori nuclei
familiari; commissionarono il miglioramento del sistema delle
mura, strutturarono la micro società secondo i canoni della
signoria feudale. L'acquisizione della chiesa di S. Erasmo non
fu, però, né immediata né scontata. Nel 1058
Giordano I, principe di Capua, concesse la chiesa all'abate di
Montecassino Desiderio, ma il Fedele ritiene il documento un falso.
Il monastero castellonese continuò ad acquisire tra il
1062 ed il 1066 chiese e terre sul versante marino.
L'abate cassinese Desiderio entrò in tutti i principali
contratti riguardanti il territorio compreso tra Traetto ed il
Garigliano, riuscendo a creare un corridoio tra la riva destra
(il pantano di Minturno e la terra di Sujo) e la riva sinistra
nei lembi terminali del Sessano, al fine di sfruttare la navigabilità
del fiume. Si realizzava il sogno di Desiderio: aprire per l'abbazia
di Montecassino uno sbocco a mare. In questo breve lasso di tempo
si consumò così il passaggio di S. Erasmo nelle
mani dei Cassinesi. Probabilmente il termine post quem può
essere considerato proprio l'anno 1062 a motivo delle acquisizioni
operate dalla chiesa di S. Erasmo, iniziate per l'appunto con
il 1062 e poi progressivamente accentuate. Anteriormente al 1062
si registra l'assenza di transazioni.
Desiderio, a compimento del suo disegno, fece incidere nel 1066
il portale bronzeo dell'abbazia benedettina con l'elenco di tutti
i cospicui possedimenti, tra cui S. Erasmo, da poco trasferita
nelle mani dei Benedettini.
La conferma viene dalla lettura della carta di donazione di due
terre all'abate Marino della chiesa di S. Erasmo "in civitate
furmiana iam diruta" e "in ordine coenobiali ordinata"
(C.D.C., II, CCXXVI). Il progetto desideriano era stato facilitato
dal concomitante interesse dei successori del vescovo di Gaeta
Bernardo ad aprire spazi all'iniziativa monastica e laicale, essendo
oramai i monaci elementi insostituibili per la rinascita dei centri
di culto e per l'assistenza alle popolazioni rurali. A Leone IV
della famiglia ducale successero monaci benedettini e cassinesi
sulla cattedra gaetana: Rainaldo I (1090-1094), che consacrò
l'altare dedicato a Erasmo nella Cattedrale di Gaeta e nella basilica
di S. Martino su invito dei Cassinesi, Riccardo (1124), Teodino
e Trasmundo (1148-1151) e Rainaldo II (1169-1179).
Dopo il 1170 secondo il Codex (C.D.C., II, CCCLI), dopo il 1241
secondo la Rubrica delle Carte (RdC, 15) converrà parlare
formalmente di due borghi distinti: Mola e Castellone, nella realtà
già separati da decenni.
Nel 1197 si scriveva "Castellone, che dicevasi Formia"
(RdC, 11) e nel 1305 (C.D.C., III(I), CCCCXXVIII), Mola e Castellone
comparivano da allora in poi assieme senza il nome Formia.
Ed il nome Formia riapparirà solo con l'Unità d'Italia
per simboleggiare la ritrovata riunificazione del proprio territorio
attorno alle attuali vie F. Rubino, Vitruvio e F. La Vanga, nuovo
fulcro cittadino.
Il
saggio di R. Frecentese è tratto da "Formia nell'alto
medioevo tra VI e XI secolo: dalla civitas ai borghi", in
R. Frecentese, Studi e ricerche sul territoito di Formia. Caramanica,
Marina di Minturno, 1996, pp.3-55.
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