Situata
in una posizione felice sulle vie di comunicazione tra l'Appia
e la grande portualità tirrenica, Formia è stata
evangelizzata sin dal primo apparire del Cristianesimo, quale
territorio tra i più prossimi alla capitale dell'Impero.
In analogia con altri centri marittimi lungo le rotte commerciali,
la fede cristiana potrebbe essere stata plausibilmente veicolata
da gruppi di orientali, per lo più dediti al commercio
o comunque ad esso legati, forse d'origine ebraica.
E questo similmente a quanto accadeva in altre città campane
in eguali condizioni geografico-economiche.
L'evangelizzazione di Paolo lungo l'Appia è attestata dagli
Atti degli Apostoli nel suo attraversamento da Pozzuoli verso
Roma passando per Tres Tabernae ed il Foro Appio: "Il giorno
seguente si levò lo scirocco e così l'indomani arrivammo
a Pozzuoli. Qui trovammo alcuni fratelli, i quali ci invitarono
a restare con loro una settimana. partimmo quindi alla volta di
Roma. I fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci
vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo,
al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio".
La sua sosta a Gaeta viene ricordata negli Atti apocrifi di Pietro
e Paolo dello Pseudo Marcello: "Partiti da Baia, giunsero
a Gaeta, dove Paolo prese ad insegnare la parola di Dio. Vi rimase
infatti per tre giorni in casa di Erasmo, che Pietro aveva inviato
da Roma a predicare il vangelo di Dio. Partito da Gaeta, arrivò
alla borgata di Terracina. Vi rimase sette giorni in casa del
diacono Cesario, ordinato da Pietro. Di qui navigò attraverso
il fiume ed arrivò ad un luogo detto Tre Taverne.
...
Paolo si soffermò quattro giorni a Tre Taverne, quindi
si recò al Foro Appio chiamato Vicusarape, dove pernotttò".
Con il sorgere delle comunità cristiane, dopo un periodo
durante il quale il pontefice governava le comunità ecclesiali
laziali e campane come se fossero un'unica diocesi, l'organizzazione
ecclesiastica si giovò di vescovi residenti nelle singole
circoscrizioni.
Della diocesi di Formia non sono stati tramandati i confini, ma
potrebbero essere rintracciati alcuni limiti territoriali prima
del 590, anno della soppressione della diocesi di Minturno.
La linea di demarcazione ad oriente passava probabilmente per
il monte di Scauri e ad occidente non includeva Itri, tradizionalmente
legata alla diocesi fondana. Gaeta risultava una pertinenza se
alla scomparsa della città formiana romana ne prenderà
il posto. Con il 590 la linea di confine orientale si spostava
al Garigliano.
Il primo vescovo formiano attestato dalla documentazione è
Probo, ricordato per aver dato la sepoltura al vescovo antiocheno
Erasmo, morto a Formia il 2 giugno del 303, essendo imperatori
Diocleziano e Massimiano. La vicenda è narrata nella Passio
S. Erasmi (1078/1088) di papa Gelasio II, al secolo Giovanni Coniulo,
monaco benedettino di origine gaetana. La serie dei vescovi formiani
è costellata di ampi vuoti. Tuttavia l'esistenza di una
diocesi formiana è confermata dalle fonti in età
antica, in particolari sinodi e concili.
Anche i reperti archeologici, emersi durante lo scavo che ha interessato
l'ex cattedrale di S. Erasmo, indicano con certezza la sepoltura
di vescovi nel perimetro dell'area funeraria formiana. In particolare
due epigrafi sottolineano il rango dei defunti.
L'epigrafe (...] EPIS[...] / [...]PIS hedera [...) sotto il profilo
paleografico rimanderebbe ai secc. IV-V. L'integrazione dei frustuli
richiama l'epitafio di un vescovo.
Scavi archeologici
dell'area dell'ex cattedrale di S. Erasmo. Lastra funeraria di
vescovo
L'epigrafe contenente il salmo L (Miserere) è più
tarda. I motivi paleografici, il sistema di abbreviazioni la riconducono
ad ambiti non strettamente locali e senz'altro a datazioni precedenti
l'affermazione della scrittura carolina. Si potrebbe pensare di
collocarla entro l'VIII sec. e non oltre. L'ultimo rigo dell'epigrafe
mutilo conserva la dicitura HUMIL· EPISC senza il nome
del vescovo.
Scavi
archeologici dell'area dell'ex cattedrale di S. Erasmo. Lastra
funeraria di vescovo con miserere.
Le tombe di vescovi sono inserite in un contesto di sepolture
a partire dal martyrium di S. Erasmo nell'area cimiteriale romana
sita extra moenia, poi cristiana. Martiri e confessori sono stati
inumati nella cattedrale formiana e con loro i vescovi, della
gran parte dei quali, purtroppo, non si conosce il nome.
Scavi archeologici dell'area dell'ex cattedrale di S. Erasmo.
Lastra funeraria con delfino.
Qualche dato onomastico proviene dai concili. Fonti documentarie
attestano i nomi di Martiniano, che partecipò al concilio
del 487 indetto da papa Felice, Adeodato, attestato nei tre sinodi
e concili romani del 499, 501 e 502 convocati da papa Simmaco.
In questo periodo la diocesi formiana, che era sorta al pari di
numerosi esempi ricalcando l'estensione del modello circoscrizionale
amministrativo-territoriale della civitas romana, si adeguava
al più generale disegno promosso da Gelasio I, che aveva
inaugurato una nuova concezione ecclesiale secondo il principio
del "territorium non facere diocesim", superando l'antiquissima
ecclesiarum divisio.
La dimensione pastorale appariva maggiormente significativa rispetto
all'estensione fisica del territorio. L'episcopus acquisiva nuova
e più pregnante centralità nella città rispetto
al resto del territorio con un marcato ruolo riservato alla liturgia
sacramentale di iniziazione cristiana.
La diocesi formiana era in rapporto diretto con Roma ed il suo
vescovo-pontefice, tanto che da sempre è stata considerata
immediatamente soggetta alla sede petrina.
Intensi rapporti il vescovo ebbe con le diocesi confinanti di
Minturno e Fondi, soprattutto per essere questi episcopati di
confine tra Lazio e Campania. Dapprima furono al centro della
contesa tra Bizantini e Goti nella prima metà del VI secolo
e successivamente tra Bizantini ed i nuovi invasori, i Longobardi.
La guerra greco-gotica si era abbattuta con virulenza così
come testimoniato dalla narrazione di Procopio di Cesarea e Paolo
Diacono, tanto che l'esercito di Totila, re dei Goti d'oriente,
era riuscito ad occupare Minturnae.
Lo spopolamento dell'area minturnese e l'abbandono delle opere
irrigue e di regimentazione delle acque avevano procurato l'impaludamento
e l'insalubrità dell'aria nella fascia costiera tra il
corso terminale del Liri-Garigliano ed il mare.
Gli abitanti si erano spinti sui colli antistanti il centro romano
sito lungo l'Appia, cosicché erano venuti meno e gli abitanti
ridottisi numericamente sia le entrate occorrenti per il sostentamento
del clero e dell'episcopato.
Questo il motivo per cui Gregorio Magno, all'inizio del suo pontificato
(590-604) decretò la soppressione della diocesi di Minturno
e l'inglobamento del territorio e delle rendite percepite in quella
di Formia, allora retta da Bacauda.
Gregorio Magno conosceva bene la situazione politica e pastorale
del territorio formiano, e più in generale dell'area dell'antico
Formianum, che si estendeva dall'insediamento di Fondi sino al
Garigliano.
Della chiesa formiana ricordava in particolare la figura del vescovo
Erasmo, sulla cui sepoltura era stata confermata la diocesi e
la cattedra.
Della vicina diocesi di Fondi aveva ammirato il culto per i santi
Onorato e Libertino e aveva appreso dell'esistenza del cenobio
di S. Magno.
L'episcopato di Bacauda, probabilmente collocato sulla cattedra
formiana dallo stesso Gregorio Magno, si distingueva per l'intelligente
amministrazione politico-psastorale. Bacauda proveniva dal rango
dei legati pontifici e a lui era stata affidata l'ambasceria presso
Giovanni, patriarca di Costantinopoli, nell'ottobre del 590, poco
prima della soppressione della diocesi minturnese. Nel settembre-ottobre
del 591 a Bacauda e ad Agnello, vescovo di Fondi veniva congiuntamente
affidata la delicata missione per risolvere la spinosa disputa
circa gli Ebrei a Terracina.
L'occupazione dei Longobardi di Fondi e di Formia, anche se per
breve tempo, costringeva il clero, o una certa parte di esso,
nel 592 alla fuga precipitosa. Tuttavia i Longobardi non dovettero
restare a lungo se già nell'estate del 594, forse su sollecitazione
dello stesso Bacauda, Gregorio Magno scriveva al vescovo di Siracusa
Massimiano affinché il clero formiano lì rifugiatosi
ritornasse nella città di Formia. Bacauda si spense prima
dell'aprile del 597, allorquando in quella data il vescovo di
Fondi Agnello era stato designato visitatore della diocesi di
Formia per la morte del suo pastore.
Nell'ottobre del 598 Gregorio Magno aveva scritto ad Albino: ciò
indicava che era già avvenuta la provvista sulla cattedra
formiana. L'attenzione del pontefice a questa ampia fetta di territorio
tra Terracina e Napoli, soprattutto per la fascia costiera laziale
a meridione di Roma, si sostanziava nella gestione dei fondi del
Patrimonium S. Petri, pur nelle evidenti stringenti difficoltà
tra pressioni bizantine e longobarde. Non sfuggiva al papa la
necessità di operare attivamente su quei latifondi che
garantivano stabilità di introiti per Santa Romana Chiesa.
Quest'attenzione si esprimeva con la collocazione sulle cattedre
diocesane ricadenti nel Patrimonium di personalità di rilievo,
alcune delle quali percorsero alti gradi della carriera ecclesiastica.
Lo stesso Agnello venne elevato al rango di cardinale.
Gregorio Magno si era preoccupato di riformare il patrimonio ecclesiastico
affinché la produzione agricola potesse incrementarsi e
con essa la Chiesa potesse ricavare quanto necessario non soltanto
per il proprio sostentamento ma per il più generale benessere
delle comunità civiche.
La visione a fondazione della riforma scaturiva dalla preparazione
biblica e dalla rilettura dei testi sacri ad opera di esegeti
di notevole spessore culturale. Ma la propria esperienza personale
e l'attenta considerazione dei problemi della comunità
umana nella produzione e gestione dei beni, primi tra tutti la
terra ed i prodotti che da essa si potevano ricavare, si traducevano
in utile guida per le scelte che operò nel corso del pontificato.
Il principio della comunione ecclesiale si riversava sul piano
naturale: gli uomini liberati dal peccato originale, potevano
vivere una comunione di carità secondo, però, una
gradualità che prendesse in considerazione il possesso,
il lavoro e il bisogno.
I fondi, già affidati al lavoro dei coloni, continuavano
a diventare il fulcro della produzione ed ai fittavoli era riservata
la garanzia di poter godere della gran parte dei frutti, accogliendo
la necessità di stabilire un profondo legame tra colono
e terra assegnata. La forma di affidamento era attuata tramite
stipule di contratti nelle forme dei livelli e delle enfiteusi,
secondo le possibilità offerte dalle norme che vigevano.
L'insieme dei fondi o massae costituivano la possessio o patrimonium.
A guida dei patrimonia venivano posti i chierici, che svincolati
dalle preoccupazioni dei legami familiari, potevano dedicarsi
in pienezza alla traduzione delle indicazioni pastorali e, di
riverbero, amministrative del pontefice secondo il principio della
comunione ecclesiale e della condivisione delle preoccupazioni.
A chierici (diaconi, suddiaconi, notarii) venivano, poi, affidate
la scelta ed il controllo dei conductores (o rectores) laici,
ai quali era data la gestione delle massae più estese,
la tenuta dei libri delle rationes decimarum, le controversie
giudiziarie, la rappresentanza del pontefice nel governo locale.
La riscossione delle decime a partire dal V secolo si traduceva
in disponibilità economica finalizzata a sovvenire alcune
necessità della Chiesa.
Ma accanto ai patrimonia della Sede apostolica si aggiungevano
i patrimonia delle chiese rette dai vescovi per mezzo di propri
defensores. Anche tali "patrimoni" erano suddivisi in
massae e generalmente i proventi venivano ripartiti in quattro
parti secondo l'antica consuetudine ecclesiastica documentata
con i papi Simplicio e Gelasio: una per il vescovo, una per il
clero, una per i poveri, l'ultima per la manutenzione degli edifici
sacri.
Probabilmente con la soppressione della diocesi minturnese è
stato possibile far confluire la quota parte della decime per
finanziare un intervento strutturale a favore della chiesa cattedrale
di S. Erasmo.
Riprendendo
la cronotassi, nella serie dei vescovi formiani bisogna ancora
una volta notare una nuova penuria di informazioni dopo l'episcopato
di Albino. Nel 649 si ricorda Bonito che partecipò al concilio
romano promosso dal pontefice Martino I; nel 680 Adeodato II era
presente al concilio convocato da papa Agatone.
Ma in un breve lasso di tempo l'opera intrapresa da Gregorio Magno
riguardo al Patrimonium Beati Petri dovette misurarsi con la nuova
situazione politica ed in particolare con le pressioni dei Bizantini
sul ducato di Roma e la lotta iconoclastica. Queste tensioni determinavano
un sostanziale impoverimento nella percezione delle rendite del
patrimonium per la perdita di fatto di possessioni assegnate dall'imperatore
d'Oriente ai suoi sostenitori.
I patrimonia ricadenti nel territorio della circoscrizione diocesana
formiana, come già evidenziato, erano di natura sia pontificia
sia episcopale. Tra quelli pontifici bisogna ricordare sotto Gregorio
II, (715-731) un numero cospicuo di massae i cui nomi sono attestati
nel Codex Diplomaticus Cajetanus (= C.D.C.) e situati tra Fondi
e il Garigliano.
Papa Zaccaria (741-757) continuò l'opera dei predecessori
di attenzione nei confronti del patrimonium e della sua gestione.
Eresse una massa denominata "ad formias" in domusculta,
una struttura autosufficiente nella vita comunitaria a livello
amministrativo, religioso, militare con un centro abitato fornito
dei servizi necessari alla sopravvivenza economica e alla vita
relazionale. Ma oramai era lontana l'età di Gregorio Magno
ed occorreva proporre nuove forme di aggregazione attorno alle
strutture fondiarie, privilegiando nuove tipologie di contratti.
L'enfiteusi divenne rinnovabile fino a diventare la forma più
utilizzata, prefigurando un meccanismo di lunga durata che saldava
esigenze ed interessi dei coloni, dei gestori e dei terzi.
Per quanto riguarda i patrimonia del vescovo formiano è
da menzionare una massa S. Erasmi, che aveva preso il nome dal
santo titolare della diocesi formiana, ricordata in un documento
dell'845 (C.D.C., I, VIII). Di questo intenso periodo (circa sec.
VII - metà sec. VIII) non si ricordano nomi di vescovi
formiani.
Il vuoto prosegue fino al 787 quando appare Campolo che risiede
nel castro di Gaeta. In realtà il castro gaetano nella
più generale condizione di decadenza dei centri urbani
sorti lungo l'Appia aveva trovato modo di essere edificato con
il concorso degli abitanti dei vicini distretti, costruzione favorita
dal naturale arroccamento e dalla defilata esposizione rispetto
alle vie Appia e Flacca.
I beni pontifici si estendevano all'interno dell'antico Formianum,
quelli diocesani giungevano a Scauri. Gaeta era sfuggita all'occupazione
longobarda come altri centri costieri del Lazio che, invece, restarono
sotto il diretto influsso dei Bizantini, i quali non abbandonarono
i capisaldi nevralgici del Lazio costiero. Che non si possa parlare
di dominazione longobarda lo si arguisce dal fatto che nessuno
dei centri demici laziali a sud di Roma venne eretto a gastaldato
così come, invece, avvenne per Capua e gli altri distretti
campani occupati dai Longobardi.
Il controllo sul territorio pontificio venne rafforzato con l'edificazione
di un insediamento fortificato sul modello del castro, fondato
per volere di papa Leone III, che da lui assunse probabilmente
il nome (Castroleopoli) e per breve tempo eretto a diocesi richiamò
la circoscrizione ecclesiastica di Minturno con la denominazione
di Traetto-Leopoli.
In questa complessa situazione Formia ancora svolgeva un certo
ruolo non fosse altro per il titolo di civitas che le restava
in attesa che Gaeta lo ricevesse a partire dall'866. E come singolare
coincidenza dall'867, a cominciare dal vescovo Ramfo, il titolo
episcopale passò definitivamente e stabilmente in quello
di vescovo di Gaeta.
Nel quadro delle problematiche connesse al Patrimonium Sancti
Petri l'attrito tra Papato e Bizantini comportò l'accentuarsi
del legame di Gaeta con Bisanzio. Il pontefice Adriano I nel 779
aveva richiesto a Carlo Magno di espugnare Gaeta e Napoli per
mezzo di Vulfuino al fine di riavere le ampie porzioni del patrimonio
ecclesiastico nel Napoletano. Lo stretto ed antico rapporto tra
Cattedra petrina e le diocesi del Lazio fece sì che il
pontefice rivendicasse i propri latifondi.
Papa Paolo I tra 764 e 766 aveva invitato Pipino ad ammonire Desiderio,
il quale costringesse Napoletani e Gaetani a restituire le terre
del patrimonio ecclesiastico e consentisse ai vescovi eletti di
quelle città di giungere a Roma per la loro consacrazione.
E tra i vescovi convocati al Concilio Lateranense del 769 non
figurava il vescovo di Formia, segno che Gaeta era nell'orbita
bizantina.
A Gaeta, difatti, nel 778 comparve il patrizio di Sicilia e tra
764 e 779 il pontefice si scagliò più volte contro
i Gaetani, dichiarati usurpatori del patrimonio ecclesiastico.
Poco prima della convocazione del Concilio di Nicea, essendo morto
nel 787 Leone IV, imperatore d'Oriente, e cessata, pertanto, la
lotta iconoclastica grazie alla nuova politica avviata dall'imperatrice
Irene, nei documenti appariva il vescovo Campolo. Cosicché
Gaeta sembrava ritornare nell'orbita politica romana.
Proveniente da una famiglia comitale gaetana, Campolo aveva un
nome di origini greche, forse di stirpe napoletana. Quest'ipotesi
sembra plausibile perché in un documento dell'866 un notaio
Campolo, capace di redigere atti in lingua latina e alfabeto greco,
proveniva dalla città di Napoli ma risiedeva a Gaeta.
Il patrimonio ecclesiastico era la causa della lunga contesa tra
Papato e Gaetani, i quali desideravano espandere la loro ridotta
estensione territoriale volendo inglobare proprio i possedimenti
pontifici.
Tali possedimenti garantivano quella produttività e redditualità
che i piccoli appezzamenti nei pressi del castro non consentivano.
L'economia di Gaeta essenzialmente mercantile, aveva necessità
di ampliarsi con un progressivo aumento della produzione, con
la collocazione a breve distanza di un'industria di trasformazione
dei prodotti agricoli e con il loro commercio.
Il compromesso raggiunto con l'elezione di Campolo dava vigore
ad un equilibrio dinamico alla nuova stratificazione socio-economica
della popolazione del castro gaetano e poneva le basi per il predominio
della famiglia dei Docibile, che era riuscita ad emergere godendo
del consenso del ceto imprenditoriale gaetano.
Campolo appariva gradito al Papato ed ai Gaetani, giungendo probabilmente
a fungere da garante circa la gestione del Patrimonio ecclesiastico
ricadente nella diocesi in qualità di delegato del pontefice
e potendo, nel contempo, favorire la stipula di contratti a lungo
termine a favore delle famiglie gaetane.
Questa politica si inseriva all'interno del più generale
processo di ridefinizione delle circoscrizioni ecclesiastiche
iniziato nell'Italia meridionale a partire dalla seconda metà
del VI secolo, giunto a compimento soltanto nell'VIII secolo.
Si avviava così con Campolo una forte politica pragmatica
e prendeva, tuttavia, corpo una dipendenza dai Docibile che perdurò
fino all'elezione del vescovo Bernardo (997-1047), che, pur provenendo
dalla dinastia ducale, propose ed attuò un progressivo
distacco della politica di gestione dei beni diocesani da quelle
ducali, iniziando un reupero delle chiese e proprietà ecclesiastiche.
Cosicché Campolo risiedeva a Gaeta nel 787 e manteneva
i legami con la cattedrale di S. Erasmo a Formia, ancora chiesa
battesimale, ma egli appariva e si definiva "Episcopus civitati
Caietanae" o ancora più perentoriamente "Episcopus
Kaetanus" (788).
La residenza a Gaeta comportò la traslazione delle reliquie
del santo titolare della cattedra diocesana prima delle vicende
belliche che poi si susseguirono. Per cui la traslazione delle
reliquie di s. Erasmo da Formia a Gaeta poteva essere ragionevolmente
assegnata all'episcopato di Campolo. La cattedra e le reliquie
stesse del santo martire erano un tutt'uno inscindibile. La traslazione
dell'una comportava lo spostamento delle altre.
La chiesa cattedrale formiana proseguì nella sua fioritura
artistica e l'officiatura venne garantita dal clero di rango elevato.
Ancora un vuoto contrassegna la serie dei vescovi formiani successori
di Campolo. Sotto il pontificato di Gregorio IV (827-844) si ha
menzione di Giovanni vescovo "con l'aiuto di Dio della santa
Chiesa formiana" che l'11 gennaio 830 (C.D.C., I, II) affidava
un mulino presso il beato Lorenzo (a Mola?) al conte Gregorio.
Ma il documento è redatto nel castro di Gaeta.
Nell'831 (C.D.C., I, IV) il vescovo Giovanni lasciava un testamento,
nel quale la destinazione dei beni è di carattere essenzialmente
privato, rogato dal diacono Paolo "inutile diacono della
Santa Chiesa formiana e scriba di questo castro gaetano".
Nell'845 (C.D.C., I, VIII) con il consenso del vescovo Costantino
i coloni della massa S. Erasmi vendono alcuni terreni siti a Mergataro.
La denominazione con il nome del santo titolare della diocesi
formiana fa ritenere che la diocesi continuasse ancora ad avere
un cospicuo numero di possedimenti di varie dimensioni e continuasse
a gestirli direttamente. Ciò confermerebbe ancor di più
l'allineamento della politica episcopale con quella dei Docibile.
Nell'855 (C.D.C., I, X) Costantino è vescovo "Sancte
furmiane ecclesie et castro Cajetano", vale a dire della
santa chiesa formiana e del castro gaetano. L'ultimo vescovo che
mantiene il titolo formiano è Leone attestato nell'861.
Nell'867 (C.D.C., I, XIII) Ramfo si denominava vescovo gaetano
e da lui in poi cessò ogni riferimento alla diocesi formiana,
concludendosi definitivamente quell'esperienza anche con la traslazione
de jure del titolo. Il nome Ramfo è presente nel casato
dei Docibile.
Diveniva così inarrestabile e irreversibile il declino
episcopale della già cattedrale formiana di S. Erasmo sia
per l'erezione di una nuova cattedrale a Gaeta sia con il suo
incameramento tra i beni dei Docibile e la successiva cessione
con gli atti del 934 (C.D.C., I, XXXVI) e del 944 (C.D.C., I,
LIX) a propri familiari con l'obbligo dell'officiatura della gestione
dei beni ad essa pertinenti e della riparazione del tempio.
Così anche le vicende del Patrimonio pontificio e del ducato
di Gaeta oramai si sovrappongono sino a giungere a Docibile II
che assomma a sé la carica di ipata e quella di rettore
del Patrimonium.
Significativa appariva la compilazione di documenti a dimostrazione
dell'intensa attività dell'episcopato tra IX e X secolo.
Nell'830 (CDC, I, II) Eustrazio rogava l'assegnazione da parte
del vescovo Giovanni al conte Gregorio di un mulino per 45 giorni,
firmandosi scriba e pater diaconiae.
Tra l'830 (?) e l'845 compare Pietro sacerdote e scriba; tra l'839
e l'845 Paolo si firma anch'egli sacerdote e scriba. Gregorio
esercita la funzione di scriba nell'851 in qualità di suddiacono
e nell'862 quale sacerdote.
G. Gattola afferma che durante il ducato di Gaeta (IX-XII secolo)
vi erano dei canonici che coadiuvavano il vescovo nella liturgia.
L'attività dei canonici sembra essere posta in evidenza
nel testamento di Docibile I (906) e al 993 risale l'istituzione
dell'arcidiaconato.
Nel 995 si ha notizia della costituzione di un archium (arcipretura)
amministrato da un arciprete della cattedrale: tuttavia i beni
erano distinti da quelli amministrati dal vescovo pur se l'archium
costituiva di per sé una funzione dell'episcopio. Si ha
motivo di ritenere che l'archium si identifichi con una struttura
composta dall'amministrazione dell'arcipretura e da un archivio,
nel quale venivano custoditi i documenti che attestavano le proprietà
dell'episcopato.
Ma queste ultime vicende riguardano oramai la diocesi di Gaeta,
che ereditava quella formiana nella sua squisita dimensione di
circoscrizione ecclesiastica. La diocesi gaetana era orientata
nel duplice ridisegno di struttura pastorale adeguata alla nuova
città e ai suoi bisogni e di equilibrio nella complessa
rete di rapporti politici con la famiglia ducale. Questo ripiegarsi
dell'episcopato gaetano, che bisogna ricordare era immediatamente
soggetto alla Santa Sede, era favorito dall'allentamento della
pressione del Papato sul Patrimonium alle prese con la crisi derivante
dalla lotta tra fazioni spoletane e anti spoletane e dalla turbolenza
delle famiglie romane.
Giovanni VIII (872-882) fu l'ultimo pontefice che esercitò
un vero ruolo politico entrando anche in conflitto con il ducato
di Gaeta. Dopo di lui le vicende legate a papa Formoso (891-896),
la preminenza dei conti di Tuscolo con Alberico II, la presenza
pur breve a Roma degli imperatori germanici di origine sassone,
poi ancora il potere nelle mani dei Crescenzi scandirono uno dei
secoli più difficili e tristi per il Papato.
In queste condizioni la famiglia dei Docibile ebbe più
facile giuoco ottenendo da papa Giovanni X (914-928) quanto non
le era riuscito con Giovanni VIII, grazie all'appoggio dato per
la cacciata dei Saraceni con la battaglia del Garigliano del 915,
ma anche la diocesi gaetana poté proseguire la politica
di sostanziale allineamento con la città di Gaeta, iniziata
al tramonto dell'VIII secolo.
Il
saggio è tratto da "Storia di Formia illustrata (a
cura di M. D'Onofrio). Vol. II: Età medievale". Sellino
editore, Pratola sannita, 2000, pp.53-70.
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