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•Bibliografia su Formia nell'età medievale

•Roberto Frecentese: pubblicazioni


Nel sito gli studiosi possono trovare informazioni sulla cittą di Formia in etą medievale, dal raccordo con il tardo antico al termine del basso Medieovo.

I saggi sono condensati dalle pubblicazioni di Roberto Frecentese riportate in calce.

Senza alcuna pretesa di esaustivitą, vengono ripercorsi alcuni tratti della storia formiana.

La bibliografia riporta i contributi pił significativi assieme ad alcuni studi di carattere pił generale, utili come punti di riferimento.


 

La diocesi di Formia

Situata in una posizione felice sulle vie di comunicazione tra l'Appia e la grande portualità tirrenica, Formia è stata evangelizzata sin dal primo apparire del Cristianesimo, quale territorio tra i più prossimi alla capitale dell'Impero.
In analogia con altri centri marittimi lungo le rotte commerciali, la fede cristiana potrebbe essere stata plausibilmente veicolata da gruppi di orientali, per lo più dediti al commercio o comunque ad esso legati, forse d'origine ebraica.
E questo similmente a quanto accadeva in altre città campane in eguali condizioni geografico-economiche.
L'evangelizzazione di Paolo lungo l'Appia è attestata dagli Atti degli Apostoli nel suo attraversamento da Pozzuoli verso Roma passando per Tres Tabernae ed il Foro Appio: "Il giorno seguente si levò lo scirocco e così l'indomani arrivammo a Pozzuoli. Qui trovammo alcuni fratelli, i quali ci invitarono a restare con loro una settimana. partimmo quindi alla volta di Roma. I fratelli di là, avendo avuto notizie di noi, ci vennero incontro fino al Foro di Appio e alle Tre Taverne. Paolo, al vederli, rese grazie a Dio e prese coraggio".
La sua sosta a Gaeta viene ricordata negli Atti apocrifi di Pietro e Paolo dello Pseudo Marcello: "Partiti da Baia, giunsero a Gaeta, dove Paolo prese ad insegnare la parola di Dio. Vi rimase infatti per tre giorni in casa di Erasmo, che Pietro aveva inviato da Roma a predicare il vangelo di Dio. Partito da Gaeta, arrivò alla borgata di Terracina. Vi rimase sette giorni in casa del diacono Cesario, ordinato da Pietro. Di qui navigò attraverso il fiume ed arrivò ad un luogo detto Tre Taverne.
...
Paolo si soffermò quattro giorni a Tre Taverne, quindi si recò al Foro Appio chiamato Vicusarape, dove pernotttò".
Con il sorgere delle comunità cristiane, dopo un periodo durante il quale il pontefice governava le comunità ecclesiali laziali e campane come se fossero un'unica diocesi, l'organizzazione ecclesiastica si giovò di vescovi residenti nelle singole circoscrizioni.
Della diocesi di Formia non sono stati tramandati i confini, ma potrebbero essere rintracciati alcuni limiti territoriali prima del 590, anno della soppressione della diocesi di Minturno.
La linea di demarcazione ad oriente passava probabilmente per il monte di Scauri e ad occidente non includeva Itri, tradizionalmente legata alla diocesi fondana. Gaeta risultava una pertinenza se alla scomparsa della città formiana romana ne prenderà il posto. Con il 590 la linea di confine orientale si spostava al Garigliano.
Il primo vescovo formiano attestato dalla documentazione è Probo, ricordato per aver dato la sepoltura al vescovo antiocheno Erasmo, morto a Formia il 2 giugno del 303, essendo imperatori Diocleziano e Massimiano. La vicenda è narrata nella Passio S. Erasmi (1078/1088) di papa Gelasio II, al secolo Giovanni Coniulo, monaco benedettino di origine gaetana. La serie dei vescovi formiani è costellata di ampi vuoti. Tuttavia l'esistenza di una diocesi formiana è confermata dalle fonti in età antica, in particolari sinodi e concili.
Anche i reperti archeologici, emersi durante lo scavo che ha interessato l'ex cattedrale di S. Erasmo, indicano con certezza la sepoltura di vescovi nel perimetro dell'area funeraria formiana. In particolare due epigrafi sottolineano il rango dei defunti.
L'epigrafe (...] EPIS[...] / [...]PIS hedera [...) sotto il profilo paleografico rimanderebbe ai secc. IV-V. L'integrazione dei frustuli richiama l'epitafio di un vescovo.

Scavi archeologici dell'area dell'ex cattedrale di S. Erasmo. Lastra funeraria di vescovo


L'epigrafe contenente il salmo L (Miserere) è più tarda. I motivi paleografici, il sistema di abbreviazioni la riconducono ad ambiti non strettamente locali e senz'altro a datazioni precedenti l'affermazione della scrittura carolina. Si potrebbe pensare di collocarla entro l'VIII sec. e non oltre. L'ultimo rigo dell'epigrafe mutilo conserva la dicitura HUMIL· EPISC senza il nome del vescovo.

 

Scavi archeologici dell'area dell'ex cattedrale di S. Erasmo. Lastra funeraria di vescovo con miserere.


Le tombe di vescovi sono inserite in un contesto di sepolture a partire dal martyrium di S. Erasmo nell'area cimiteriale romana sita extra moenia, poi cristiana. Martiri e confessori sono stati inumati nella cattedrale formiana e con loro i vescovi, della gran parte dei quali, purtroppo, non si conosce il nome.

 

Scavi archeologici dell'area dell'ex cattedrale di S. Erasmo. Lastra funeraria con delfino.


Qualche dato onomastico proviene dai concili. Fonti documentarie attestano i nomi di Martiniano, che partecipò al concilio del 487 indetto da papa Felice, Adeodato, attestato nei tre sinodi e concili romani del 499, 501 e 502 convocati da papa Simmaco. In questo periodo la diocesi formiana, che era sorta al pari di numerosi esempi ricalcando l'estensione del modello circoscrizionale amministrativo-territoriale della civitas romana, si adeguava al più generale disegno promosso da Gelasio I, che aveva inaugurato una nuova concezione ecclesiale secondo il principio del "territorium non facere diocesim", superando l'antiquissima ecclesiarum divisio.
La dimensione pastorale appariva maggiormente significativa rispetto all'estensione fisica del territorio. L'episcopus acquisiva nuova e più pregnante centralità nella città rispetto al resto del territorio con un marcato ruolo riservato alla liturgia sacramentale di iniziazione cristiana.
La diocesi formiana era in rapporto diretto con Roma ed il suo vescovo-pontefice, tanto che da sempre è stata considerata immediatamente soggetta alla sede petrina.
Intensi rapporti il vescovo ebbe con le diocesi confinanti di Minturno e Fondi, soprattutto per essere questi episcopati di confine tra Lazio e Campania. Dapprima furono al centro della contesa tra Bizantini e Goti nella prima metà del VI secolo e successivamente tra Bizantini ed i nuovi invasori, i Longobardi.
La guerra greco-gotica si era abbattuta con virulenza così come testimoniato dalla narrazione di Procopio di Cesarea e Paolo Diacono, tanto che l'esercito di Totila, re dei Goti d'oriente, era riuscito ad occupare Minturnae.
Lo spopolamento dell'area minturnese e l'abbandono delle opere irrigue e di regimentazione delle acque avevano procurato l'impaludamento e l'insalubrità dell'aria nella fascia costiera tra il corso terminale del Liri-Garigliano ed il mare.
Gli abitanti si erano spinti sui colli antistanti il centro romano sito lungo l'Appia, cosicché erano venuti meno e gli abitanti ridottisi numericamente sia le entrate occorrenti per il sostentamento del clero e dell'episcopato.
Questo il motivo per cui Gregorio Magno, all'inizio del suo pontificato (590-604) decretò la soppressione della diocesi di Minturno e l'inglobamento del territorio e delle rendite percepite in quella di Formia, allora retta da Bacauda.
Gregorio Magno conosceva bene la situazione politica e pastorale del territorio formiano, e più in generale dell'area dell'antico Formianum, che si estendeva dall'insediamento di Fondi sino al Garigliano.
Della chiesa formiana ricordava in particolare la figura del vescovo Erasmo, sulla cui sepoltura era stata confermata la diocesi e la cattedra.
Della vicina diocesi di Fondi aveva ammirato il culto per i santi Onorato e Libertino e aveva appreso dell'esistenza del cenobio di S. Magno.
L'episcopato di Bacauda, probabilmente collocato sulla cattedra formiana dallo stesso Gregorio Magno, si distingueva per l'intelligente amministrazione politico-psastorale. Bacauda proveniva dal rango dei legati pontifici e a lui era stata affidata l'ambasceria presso Giovanni, patriarca di Costantinopoli, nell'ottobre del 590, poco prima della soppressione della diocesi minturnese. Nel settembre-ottobre del 591 a Bacauda e ad Agnello, vescovo di Fondi veniva congiuntamente affidata la delicata missione per risolvere la spinosa disputa circa gli Ebrei a Terracina.
L'occupazione dei Longobardi di Fondi e di Formia, anche se per breve tempo, costringeva il clero, o una certa parte di esso, nel 592 alla fuga precipitosa. Tuttavia i Longobardi non dovettero restare a lungo se già nell'estate del 594, forse su sollecitazione dello stesso Bacauda, Gregorio Magno scriveva al vescovo di Siracusa Massimiano affinché il clero formiano lì rifugiatosi ritornasse nella città di Formia. Bacauda si spense prima dell'aprile del 597, allorquando in quella data il vescovo di Fondi Agnello era stato designato visitatore della diocesi di Formia per la morte del suo pastore.
Nell'ottobre del 598 Gregorio Magno aveva scritto ad Albino: ciò indicava che era già avvenuta la provvista sulla cattedra formiana. L'attenzione del pontefice a questa ampia fetta di territorio tra Terracina e Napoli, soprattutto per la fascia costiera laziale a meridione di Roma, si sostanziava nella gestione dei fondi del Patrimonium S. Petri, pur nelle evidenti stringenti difficoltà tra pressioni bizantine e longobarde. Non sfuggiva al papa la necessità di operare attivamente su quei latifondi che garantivano stabilità di introiti per Santa Romana Chiesa. Quest'attenzione si esprimeva con la collocazione sulle cattedre diocesane ricadenti nel Patrimonium di personalità di rilievo, alcune delle quali percorsero alti gradi della carriera ecclesiastica.
Lo stesso Agnello venne elevato al rango di cardinale.
Gregorio Magno si era preoccupato di riformare il patrimonio ecclesiastico affinché la produzione agricola potesse incrementarsi e con essa la Chiesa potesse ricavare quanto necessario non soltanto per il proprio sostentamento ma per il più generale benessere delle comunità civiche.
La visione a fondazione della riforma scaturiva dalla preparazione biblica e dalla rilettura dei testi sacri ad opera di esegeti di notevole spessore culturale. Ma la propria esperienza personale e l'attenta considerazione dei problemi della comunità umana nella produzione e gestione dei beni, primi tra tutti la terra ed i prodotti che da essa si potevano ricavare, si traducevano in utile guida per le scelte che operò nel corso del pontificato.
Il principio della comunione ecclesiale si riversava sul piano naturale: gli uomini liberati dal peccato originale, potevano vivere una comunione di carità secondo, però, una gradualità che prendesse in considerazione il possesso, il lavoro e il bisogno.
I fondi, già affidati al lavoro dei coloni, continuavano a diventare il fulcro della produzione ed ai fittavoli era riservata la garanzia di poter godere della gran parte dei frutti, accogliendo la necessità di stabilire un profondo legame tra colono e terra assegnata. La forma di affidamento era attuata tramite stipule di contratti nelle forme dei livelli e delle enfiteusi, secondo le possibilità offerte dalle norme che vigevano.
L'insieme dei fondi o massae costituivano la possessio o patrimonium. A guida dei patrimonia venivano posti i chierici, che svincolati dalle preoccupazioni dei legami familiari, potevano dedicarsi in pienezza alla traduzione delle indicazioni pastorali e, di riverbero, amministrative del pontefice secondo il principio della comunione ecclesiale e della condivisione delle preoccupazioni. A chierici (diaconi, suddiaconi, notarii) venivano, poi, affidate la scelta ed il controllo dei conductores (o rectores) laici, ai quali era data la gestione delle massae più estese, la tenuta dei libri delle rationes decimarum, le controversie giudiziarie, la rappresentanza del pontefice nel governo locale.
La riscossione delle decime a partire dal V secolo si traduceva in disponibilità economica finalizzata a sovvenire alcune necessità della Chiesa.
Ma accanto ai patrimonia della Sede apostolica si aggiungevano i patrimonia delle chiese rette dai vescovi per mezzo di propri defensores. Anche tali "patrimoni" erano suddivisi in massae e generalmente i proventi venivano ripartiti in quattro parti secondo l'antica consuetudine ecclesiastica documentata con i papi Simplicio e Gelasio: una per il vescovo, una per il clero, una per i poveri, l'ultima per la manutenzione degli edifici sacri.
Probabilmente con la soppressione della diocesi minturnese è stato possibile far confluire la quota parte della decime per finanziare un intervento strutturale a favore della chiesa cattedrale di S. Erasmo.

Riprendendo la cronotassi, nella serie dei vescovi formiani bisogna ancora una volta notare una nuova penuria di informazioni dopo l'episcopato di Albino. Nel 649 si ricorda Bonito che partecipò al concilio romano promosso dal pontefice Martino I; nel 680 Adeodato II era presente al concilio convocato da papa Agatone.
Ma in un breve lasso di tempo l'opera intrapresa da Gregorio Magno riguardo al Patrimonium Beati Petri dovette misurarsi con la nuova situazione politica ed in particolare con le pressioni dei Bizantini sul ducato di Roma e la lotta iconoclastica. Queste tensioni determinavano un sostanziale impoverimento nella percezione delle rendite del patrimonium per la perdita di fatto di possessioni assegnate dall'imperatore d'Oriente ai suoi sostenitori.
I patrimonia ricadenti nel territorio della circoscrizione diocesana formiana, come già evidenziato, erano di natura sia pontificia sia episcopale. Tra quelli pontifici bisogna ricordare sotto Gregorio II, (715-731) un numero cospicuo di massae i cui nomi sono attestati nel Codex Diplomaticus Cajetanus (= C.D.C.) e situati tra Fondi e il Garigliano.
Papa Zaccaria (741-757) continuò l'opera dei predecessori di attenzione nei confronti del patrimonium e della sua gestione. Eresse una massa denominata "ad formias" in domusculta, una struttura autosufficiente nella vita comunitaria a livello amministrativo, religioso, militare con un centro abitato fornito dei servizi necessari alla sopravvivenza economica e alla vita relazionale. Ma oramai era lontana l'età di Gregorio Magno ed occorreva proporre nuove forme di aggregazione attorno alle strutture fondiarie, privilegiando nuove tipologie di contratti. L'enfiteusi divenne rinnovabile fino a diventare la forma più utilizzata, prefigurando un meccanismo di lunga durata che saldava esigenze ed interessi dei coloni, dei gestori e dei terzi.
Per quanto riguarda i patrimonia del vescovo formiano è da menzionare una massa S. Erasmi, che aveva preso il nome dal santo titolare della diocesi formiana, ricordata in un documento dell'845 (C.D.C., I, VIII). Di questo intenso periodo (circa sec. VII - metà sec. VIII) non si ricordano nomi di vescovi formiani.
Il vuoto prosegue fino al 787 quando appare Campolo che risiede nel castro di Gaeta. In realtà il castro gaetano nella più generale condizione di decadenza dei centri urbani sorti lungo l'Appia aveva trovato modo di essere edificato con il concorso degli abitanti dei vicini distretti, costruzione favorita dal naturale arroccamento e dalla defilata esposizione rispetto alle vie Appia e Flacca.
I beni pontifici si estendevano all'interno dell'antico Formianum, quelli diocesani giungevano a Scauri. Gaeta era sfuggita all'occupazione longobarda come altri centri costieri del Lazio che, invece, restarono sotto il diretto influsso dei Bizantini, i quali non abbandonarono i capisaldi nevralgici del Lazio costiero. Che non si possa parlare di dominazione longobarda lo si arguisce dal fatto che nessuno dei centri demici laziali a sud di Roma venne eretto a gastaldato così come, invece, avvenne per Capua e gli altri distretti campani occupati dai Longobardi.
Il controllo sul territorio pontificio venne rafforzato con l'edificazione di un insediamento fortificato sul modello del castro, fondato per volere di papa Leone III, che da lui assunse probabilmente il nome (Castroleopoli) e per breve tempo eretto a diocesi richiamò la circoscrizione ecclesiastica di Minturno con la denominazione di Traetto-Leopoli.
In questa complessa situazione Formia ancora svolgeva un certo ruolo non fosse altro per il titolo di civitas che le restava in attesa che Gaeta lo ricevesse a partire dall'866. E come singolare coincidenza dall'867, a cominciare dal vescovo Ramfo, il titolo episcopale passò definitivamente e stabilmente in quello di vescovo di Gaeta.
Nel quadro delle problematiche connesse al Patrimonium Sancti Petri l'attrito tra Papato e Bizantini comportò l'accentuarsi del legame di Gaeta con Bisanzio. Il pontefice Adriano I nel 779 aveva richiesto a Carlo Magno di espugnare Gaeta e Napoli per mezzo di Vulfuino al fine di riavere le ampie porzioni del patrimonio ecclesiastico nel Napoletano. Lo stretto ed antico rapporto tra Cattedra petrina e le diocesi del Lazio fece sì che il pontefice rivendicasse i propri latifondi.
Papa Paolo I tra 764 e 766 aveva invitato Pipino ad ammonire Desiderio, il quale costringesse Napoletani e Gaetani a restituire le terre del patrimonio ecclesiastico e consentisse ai vescovi eletti di quelle città di giungere a Roma per la loro consacrazione. E tra i vescovi convocati al Concilio Lateranense del 769 non figurava il vescovo di Formia, segno che Gaeta era nell'orbita bizantina.
A Gaeta, difatti, nel 778 comparve il patrizio di Sicilia e tra 764 e 779 il pontefice si scagliò più volte contro i Gaetani, dichiarati usurpatori del patrimonio ecclesiastico. Poco prima della convocazione del Concilio di Nicea, essendo morto nel 787 Leone IV, imperatore d'Oriente, e cessata, pertanto, la lotta iconoclastica grazie alla nuova politica avviata dall'imperatrice Irene, nei documenti appariva il vescovo Campolo. Cosicché Gaeta sembrava ritornare nell'orbita politica romana.
Proveniente da una famiglia comitale gaetana, Campolo aveva un nome di origini greche, forse di stirpe napoletana. Quest'ipotesi sembra plausibile perché in un documento dell'866 un notaio Campolo, capace di redigere atti in lingua latina e alfabeto greco, proveniva dalla città di Napoli ma risiedeva a Gaeta.
Il patrimonio ecclesiastico era la causa della lunga contesa tra Papato e Gaetani, i quali desideravano espandere la loro ridotta estensione territoriale volendo inglobare proprio i possedimenti pontifici.
Tali possedimenti garantivano quella produttività e redditualità che i piccoli appezzamenti nei pressi del castro non consentivano. L'economia di Gaeta essenzialmente mercantile, aveva necessità di ampliarsi con un progressivo aumento della produzione, con la collocazione a breve distanza di un'industria di trasformazione dei prodotti agricoli e con il loro commercio.
Il compromesso raggiunto con l'elezione di Campolo dava vigore ad un equilibrio dinamico alla nuova stratificazione socio-economica della popolazione del castro gaetano e poneva le basi per il predominio della famiglia dei Docibile, che era riuscita ad emergere godendo del consenso del ceto imprenditoriale gaetano.
Campolo appariva gradito al Papato ed ai Gaetani, giungendo probabilmente a fungere da garante circa la gestione del Patrimonio ecclesiastico ricadente nella diocesi in qualità di delegato del pontefice e potendo, nel contempo, favorire la stipula di contratti a lungo termine a favore delle famiglie gaetane.
Questa politica si inseriva all'interno del più generale processo di ridefinizione delle circoscrizioni ecclesiastiche iniziato nell'Italia meridionale a partire dalla seconda metà del VI secolo, giunto a compimento soltanto nell'VIII secolo.
Si avviava così con Campolo una forte politica pragmatica e prendeva, tuttavia, corpo una dipendenza dai Docibile che perdurò fino all'elezione del vescovo Bernardo (997-1047), che, pur provenendo dalla dinastia ducale, propose ed attuò un progressivo distacco della politica di gestione dei beni diocesani da quelle ducali, iniziando un reupero delle chiese e proprietà ecclesiastiche.
Cosicché Campolo risiedeva a Gaeta nel 787 e manteneva i legami con la cattedrale di S. Erasmo a Formia, ancora chiesa battesimale, ma egli appariva e si definiva "Episcopus civitati Caietanae" o ancora più perentoriamente "Episcopus Kaetanus" (788).
La residenza a Gaeta comportò la traslazione delle reliquie del santo titolare della cattedra diocesana prima delle vicende belliche che poi si susseguirono. Per cui la traslazione delle reliquie di s. Erasmo da Formia a Gaeta poteva essere ragionevolmente assegnata all'episcopato di Campolo. La cattedra e le reliquie stesse del santo martire erano un tutt'uno inscindibile. La traslazione dell'una comportava lo spostamento delle altre.
La chiesa cattedrale formiana proseguì nella sua fioritura artistica e l'officiatura venne garantita dal clero di rango elevato.
Ancora un vuoto contrassegna la serie dei vescovi formiani successori di Campolo. Sotto il pontificato di Gregorio IV (827-844) si ha menzione di Giovanni vescovo "con l'aiuto di Dio della santa Chiesa formiana" che l'11 gennaio 830 (C.D.C., I, II) affidava un mulino presso il beato Lorenzo (a Mola?) al conte Gregorio. Ma il documento è redatto nel castro di Gaeta.
Nell'831 (C.D.C., I, IV) il vescovo Giovanni lasciava un testamento, nel quale la destinazione dei beni è di carattere essenzialmente privato, rogato dal diacono Paolo "inutile diacono della Santa Chiesa formiana e scriba di questo castro gaetano".
Nell'845 (C.D.C., I, VIII) con il consenso del vescovo Costantino i coloni della massa S. Erasmi vendono alcuni terreni siti a Mergataro. La denominazione con il nome del santo titolare della diocesi formiana fa ritenere che la diocesi continuasse ancora ad avere un cospicuo numero di possedimenti di varie dimensioni e continuasse a gestirli direttamente. Ciò confermerebbe ancor di più l'allineamento della politica episcopale con quella dei Docibile.
Nell'855 (C.D.C., I, X) Costantino è vescovo "Sancte furmiane ecclesie et castro Cajetano", vale a dire della santa chiesa formiana e del castro gaetano. L'ultimo vescovo che mantiene il titolo formiano è Leone attestato nell'861.
Nell'867 (C.D.C., I, XIII) Ramfo si denominava vescovo gaetano e da lui in poi cessò ogni riferimento alla diocesi formiana, concludendosi definitivamente quell'esperienza anche con la traslazione de jure del titolo. Il nome Ramfo è presente nel casato dei Docibile.
Diveniva così inarrestabile e irreversibile il declino episcopale della già cattedrale formiana di S. Erasmo sia per l'erezione di una nuova cattedrale a Gaeta sia con il suo incameramento tra i beni dei Docibile e la successiva cessione con gli atti del 934 (C.D.C., I, XXXVI) e del 944 (C.D.C., I, LIX) a propri familiari con l'obbligo dell'officiatura della gestione dei beni ad essa pertinenti e della riparazione del tempio.
Così anche le vicende del Patrimonio pontificio e del ducato di Gaeta oramai si sovrappongono sino a giungere a Docibile II che assomma a sé la carica di ipata e quella di rettore del Patrimonium.
Significativa appariva la compilazione di documenti a dimostrazione dell'intensa attività dell'episcopato tra IX e X secolo. Nell'830 (CDC, I, II) Eustrazio rogava l'assegnazione da parte del vescovo Giovanni al conte Gregorio di un mulino per 45 giorni, firmandosi scriba e pater diaconiae.
Tra l'830 (?) e l'845 compare Pietro sacerdote e scriba; tra l'839 e l'845 Paolo si firma anch'egli sacerdote e scriba. Gregorio esercita la funzione di scriba nell'851 in qualità di suddiacono e nell'862 quale sacerdote.
G. Gattola afferma che durante il ducato di Gaeta (IX-XII secolo) vi erano dei canonici che coadiuvavano il vescovo nella liturgia. L'attività dei canonici sembra essere posta in evidenza nel testamento di Docibile I (906) e al 993 risale l'istituzione dell'arcidiaconato.
Nel 995 si ha notizia della costituzione di un archium (arcipretura) amministrato da un arciprete della cattedrale: tuttavia i beni erano distinti da quelli amministrati dal vescovo pur se l'archium costituiva di per sé una funzione dell'episcopio. Si ha motivo di ritenere che l'archium si identifichi con una struttura composta dall'amministrazione dell'arcipretura e da un archivio, nel quale venivano custoditi i documenti che attestavano le proprietà dell'episcopato.
Ma queste ultime vicende riguardano oramai la diocesi di Gaeta, che ereditava quella formiana nella sua squisita dimensione di circoscrizione ecclesiastica. La diocesi gaetana era orientata nel duplice ridisegno di struttura pastorale adeguata alla nuova città e ai suoi bisogni e di equilibrio nella complessa rete di rapporti politici con la famiglia ducale. Questo ripiegarsi dell'episcopato gaetano, che bisogna ricordare era immediatamente soggetto alla Santa Sede, era favorito dall'allentamento della pressione del Papato sul Patrimonium alle prese con la crisi derivante dalla lotta tra fazioni spoletane e anti spoletane e dalla turbolenza delle famiglie romane.
Giovanni VIII (872-882) fu l'ultimo pontefice che esercitò un vero ruolo politico entrando anche in conflitto con il ducato di Gaeta. Dopo di lui le vicende legate a papa Formoso (891-896), la preminenza dei conti di Tuscolo con Alberico II, la presenza pur breve a Roma degli imperatori germanici di origine sassone, poi ancora il potere nelle mani dei Crescenzi scandirono uno dei secoli più difficili e tristi per il Papato.
In queste condizioni la famiglia dei Docibile ebbe più facile giuoco ottenendo da papa Giovanni X (914-928) quanto non le era riuscito con Giovanni VIII, grazie all'appoggio dato per la cacciata dei Saraceni con la battaglia del Garigliano del 915, ma anche la diocesi gaetana poté proseguire la politica di sostanziale allineamento con la città di Gaeta, iniziata al tramonto dell'VIII secolo.

Il saggio è tratto da "Storia di Formia illustrata (a cura di M. D'Onofrio). Vol. II: Età medievale". Sellino editore, Pratola sannita, 2000, pp.53-70.