La
civitas formiana segue il destino dei centri importanti dell'Impero
romano d'occidente.
Procopio di Cesarea nel De bello gothico si dilunga circa le vicende
dell'esercito di Totila, re dei Goti d'oriente, in Campania.
Attestatisi nella città di Minturnae, dopo un'infelice
incursione di pochi di loro a Capua, prontamente respinta dall'esercito
bizantino di Giovanni , i Goti nel breve volgere di pochissimo
attraversano di continuo l'Appia e tengono in costante apprensione
le popolazioni della fascia costiera meridionale del Lazio.
Nelle città, centri di vita solidale, mai come questa volta
si sentiva la lontananza, se non addirittura l'assenza, di un'autorità
credibile, che tangibilmente aiutasse i centri costieri segnati
dalla crudezza degli eventi.
Si era spezzato definitivamente il senso dell'integrità
del territorio e si percepiva la soluzione della continuità
con il passato.
Tra Terracina e Capua l'Appia paradossalmente favoriva la crisi
dei centri urbani. Le città sono legate al destino della
regina viarum. Da camminamento dei traffici commerciali e motivo
di sviluppo dei centri in età imperiale, diviene nel V-VI
secolo elemento che facilita il transito degli eserciti, rendendo
insicuri i centri costruiti lungo la strada, utilizzati come luoghi
di sosta e di razzia.
Il conflitto greco-gotico si svolgerà drammaticamente,
non soltanto per gli orrori che ogni guerra porta con sé,
ma anche per il grave sconvolgimento della fisionomia del territorio
e delle sue istituzioni.
Neppure la riconquista del presidio gotico di Capua nel 555 da
parte dei Bizantini servirà a recuperare quella quiete
e pacificazione, grazie alle quali avviare un processo di recupero
delle condizioni di autentica vivibilità nelle città.
L'autonomia amministrativa concessa dai Bizantini a Capua, ponendo
a guida della città un tribuno, non produrrà benefici
al di là del centro campano.
La struttura organizzativa civile delle città entra in
crisi e l'organizzazione ecclesiastica si pone come elemento di
coesione cittadina e istituto di supplenza nella gestione dei
centri abitati, cosicché la storia della città si
confonderà, d'ora in avanti, con quella della sua diocesi
sino a tutto l'VIII secolo.
Nella più generale crisi dei centri urbani del Mezzogiorno
italiano tra V e VI secolo, entro i quali si era attestata la
maggior parte degli episcopati meridionali, le diocesi sembrano
gli unici nuclei territoriali in grado di svolgere un ruolo positivo
di aggregazione.
Esse erano sorte nelle civitates, rispettando le divisioni circoscrizionali
romane: ad una civitas generalmente corrispondeva una diocesi,
così per Terracinae, Fundi, Formiae e Minturnae.
Con papa Gelasio I (492-496) l'antiqua ecclesiarum divisio, stabilita
sulla base della struttura civile romana ancora valida fino al
V secolo, veniva superata da un nuovo concetto di ecclesialità
diocesana: Territorium non facere diocesim".
Violante pone in rilievo come i confini territoriali delle diocesi
nei secoli V e VI siano stati ben lontani dall'assumere una fisionomia
precisa. In effetti vige il principio, secondo il quale la diocesi
più che un territorio precipuamente fisico deve considerarsi
un popolo di fedeli stretto attorno al suo episcopus, partecipe
alla liturgia diocesana dei sacramenti fondamentali dell'iniziazione
cristiana: il battesimo e la cresima amministrati nella città.
Ecco che allora la diocesi per la sua stessa essenza costitutiva
interessa meno al fedele sotto il profilo della territorialità.
Il problema dei confini tra le diocesi può essere la spia
di un minor interesse del vescovo sul territorio, non nel senso
che non avesse un potere giurisdizionale su di esso, quanto piuttosto
per la centralità assunta dalla città, nella quale
l'episcopus svolgeva la ritualità ed il suo officium.
Chiesa
S. Erasmo: area cimiteriale, epigrafe di vescovo.
Tuttavia ciò non significava il venir meno della conflittualità.
Controversie circa i limiti diocesani contrapposero al tempo di
papa Gelasio I gli episcopati di Liternum e Volturnum, poco al
di là del Garigliano.
La crisi delle diocesi del Lazio e della Campania costiere ha
scaturigini anteriori alla discesa nel sud dei Longobardi.
Lo storico francese Duchesne riteneva che essa dipendesse essenzialmente
dall'occupazione dei Longobardi, dal mancato amalgama e dall'impossibilità
di dialogo tra le cattoliche popolazioni latine e i nuovi invasori
di stirpe germanica.
Il Fonseca ha mostrato che l'ipotesi del Duchesne, che aveva fortemente
condizionato l'interpretazione storica circa i rapporti tra Longobardi
e cattolicità, sia riduttiva.
In effetti, ancor prima dell'affacciarsi dei Longobardi, molte
sedi vescovili avevano cessato di esistere.
Nella striscia di territorio che va da Fondi a Napoli (e la parallela
fascia costiera) si può notare che l'episcopato di Suessa
era scomparso prima dell'avvento dei Longobardi e circa un terzo
delle diocesi versava in difficoltà.
E' il periodo nel quale lo spopolamento degli insediamenti demici,
la migrazione di intere popolazioni, come a Minturnae, dalla piana
costiera alla collina, sembrano eventi piuttosto 'ordinari'.
L'impaludamento dei centri attorno al Garigliano e alla Domiziana
era causato spesso dall'impossibilità di far fronte alle
opere di manutenzione dei sistemi irrigui e di contenimento delle
acque. Il ristagno aveva come effetto l'insalubrità dei
centri abitati della piana.
L'illusione di una pacificazione, immaginata come possibile dopo
la vittoriosa battaglia dei Bizantini del 553 nei pressi del Vesuvio,
sarà spazzata via dalla discesa al sud dei Longobardi.
Ma ancor prima della costituzione del ducato di Benevento nel
576 si era assistito nella Longobardia meridionale all'agonia
di un'altra diocesi dal passato illustre: Volturnum, l'odierna
Castelvolturno.
La situazione del Lazio costiero e di parte del territorio campano
tra Garigliano e Volturno è, in sintesi, al limitare del
VI secolo quanto mai fluida.
La scarna documentazione sul periodo della guerra greco-gotica
e sull'arrivo nel sud dei Longobardi non facilita la ricostruzione
della serie cronologica dei vescovi sulle antichissime sedi episcopali
di Fondi, Formia e Minturno.
Nel 590 avrà termine la diocesi di Minturno, quando papa
Gregorio Magno constaterà la rarefazione del clero e la
contrazione del numero degli abitanti. La provvista di vescovi
sulle cattedre del Lazio costiero meridionale non fu opera facile
e sbrigativa.
Gregorio Magno percepiva l'importanza strategica pastorale e politica
di queste zone e stabilirà sulle diocesi di Formia e Fondi
rispettivamente Bacauda e Agnello, robuste personalità:
l'uno (Bacauda) proveniente dai ranghi dei legati pontifici ,
l'altro (Agnello) chiamato a dirimere importanti e delicate questioni
e reggente la diocesi formiana, vacante tra il 597 ed il 598 per
la morte di Bacauda.
In questo quadro di riferimento può più agevolmente
affrontarsi la questione dell'occupazione di Formia e delle zone
limitrofe da parte dei Longobardi.
I Longobardi si affacciarono nell'Italia centro meridionale e
dettero vita in alcuni siti a forme di occupazione stabile.
Ma Delogu sostiene che i Longobardi del ducato beneventano non
arrivarono a controllare stabilmente il territorio costiero compreso
tra i monti Aurunci, il Garigliano ed il mare e che, per contro,
furono i Bizantini a preoccuparsi maggiormente della difesa dell'Appia
e dei collegamenti tra Roma e Napoli.
La testimonianza di Costantino Porfirogenito nel De administrando
imperio è quanto mai significativa: tra le città
occupate dai Longobardi non solo non figura Formia, ma l'autore
esclude che Gaeta sia stata da loro conquistata.
La Merores propende per l'occupazione di Formia, ma non supporta
la sua tesi con una documentazione probante. Non va, tuttavia,
esclusa un'azione longobarda sulla città formiana; essa
sarà di durata limitata. D'altra parte, se fosse accaduto
il contrario, ciò avrebbe significato per i Bizantini dare
mano libera ai Longobardi, cedendo le comunicazioni lungo l'Appia,
dopo averle difese fino ad allora strenuamente.
L'influsso degli istituti giuridici longobardi nel Codex Diplomaticus
Cajetanus nella produzione documentaria del IX secolo da sola
non è sufficiente a giustificare la stabile permanenza
della popolazione di stirpe germanica nel Formianum.
Si trattò allora di una occupazione temporanea, forse anche
ripetuta, ma mai si ebbe una dominazione di carattere politico-istituzionale
permanente.
Quest'ipotesi trova conforto nella lettura della corrispondenza
di papa Gregorio Magno. Nell'agosto del 594 il pontefice ordinava
al vescovo di Siracusa Massimiano di persuadere, a suo nome, il
clero formiano, rifugiatosi nella sua diocesi, dopo essersi allontanato
dal proprio vescovo di Formia Bacauda, a ritornare nella città.
L'avvicinarsi dei Longobardi, essendo stata occupata Fondi, aveva
spinto il clero formiano ad una precipitosa fuga via mare. Ma
l'occupazione di Fondi non dovette comunque durare a lungo se
nel novembre del 592 il vescovo della città, Agnello, veniva
spostato dalla cattedra fondana a quella terracinese, vacante
per la morte del proprio pastore Pietro, mantenendo ad interim
il governo della diocesi fondana.
Per inciso la vacatio delle sedi vescovili era un evento pressoché
normale: vacanti al tempo della stipula della pace con Agilulfo
erano le cattedre di Minturno, Fondi, Formia, Cuma per citare
le più vicine.
Un altro elemento può contribuire a rendere più
chiara la questione della permanenza longobarda a Formia.
Si tratta della formazione delle circoscrizioni o distretti amministrativi
denominati gastaldati, posti in essere dopo la creazione del ducato
beneventano.
Il Fonseca ha appurato che negli ultimi decenni del VII secolo
e agli inizi dell'VIII, in concomitanza con la conversione dei
Longobardi, la restaurazione degli assetti circoscrizionali ecclesiastici
sembra coincidere in larghissima parte con le circoscrizioni gastaldali,
a conferma dell'orientamento a voler far combaciare distretti
politico-amministrativi e distretti ecclesiastici.Di norma nel
VII secolo quasi tutti i centri gastaldali erano in origine sedi
episcopali, sedi episcopali che erano state dapprima civitates
romanae.
Ebbene in questo periodo Formia non compare tra i centri gastaldali;
compare, invece, Capua, caduta nelle mani longobarde tra l'aprile
del 593 ed il novembre 594 , affidata subito alla giurisdizione
di un gastaldo dipendente dal ducato di Benevento.
E' pure da sottolineare che i Bizantini lungo le coste laziali,
come sostenuto dal Manselli, hanno mantenuto guarnigioni nei punti
nevralgici.
Formia sembra stretta nella morsa tra Bizantini e Longobardi.
Gravita nell'orbita bizantina, subisce la conquista temporanea
dei Longobardi; ma, tutto sommato, ai contendenti interessa per
motivi strategici piuttosto che come centro propulsore di una
nuova circoscrizione territoriale.
Questo stato di cose comporta per il centro costiero una diminuzione
complessiva di importanza: sostanzialmente Formia si configura
come una città in profonda crisi.
Nella corrispondenza che Gregorio manteneva con gli episcopati
d'Italia un certo numero di lettere raggiunge le diocesi di Terracina,
Fondi, Formia (e di riflesso Minturno). A queste si aggiungano
le missive inoltrate a vescovi di altre sedi, il cui contenuto
riguarda direttamente o indirettamente gli episcopati del Lazio
meridionale costiero.
E' soprattutto con Bacauda, il legato pontificio dal nome di origine
gallica, nominato vescovo di Formia, che Gregorio intrattiene
uno stretto legame.
Nell'ottobre del 590, dopo avergli affidato la trasmissione di
una lettera al patriarca di Costantinopoli Giovanni , Gregorio,
forse su segnalazione del medesimo Bacauda, allora già
vescovo di Formia, concedeva la diocesi di Minturno, stabilendone
così la soppressione e decretando l'immediata disponibilità
delle risorse a favore dell'episcopio formiano.
Tra il settembre e l'ottobre del 591 a Bacauda e ad Agnello, vescovo
di Fondi, viene affidata congiuntamente la questione degli Ebrei
di Terracina.
Ancora nell'agosto del 594 il pontefice scrive a Massimiano, vescovo
di Siracusa, una missiva perché il clero formiano rientri
nella diocesi accanto a Bacauda.
Anche le diocesi di Terracina e Fondi sono oggetto di particolare
interesse. Agnello è ricordato nella sua qualità
di vescovo prima di Fondi, poi è elevato al rango di cardinale
prete di Terracina a partire dal novembre del 592, a seguito della
morte di Pietro pastore della diocesi terracinese e a causa dell'occupazione
di Fondi da parte dei Longobardi.
L'alto grado prelatizio raggiunto da Agnello gli permette di ottenere
la nomina a visitatore della diocesi di Formia nell'aprile del
597 per la morte di Bacauda ed in attesa dell'elezione del successore.
A Bacauda seguirà Albino, il cui nome appare in una lettera
pontificia dell'ottobre del 598.
Questo breve panorama pone subito in evidenza la preoccupazione
di Gregorio per la situazione amministrativa e pastorale delle
diocesi del Lazio meridionale. A guida delle diocesi vengono designati
pastori di spiccata personalità. Ciò fa ritenere
che la fluida situazione del litorale formiano dovesse essere
ben chiara nella mente del pontefice, al quale certo non sfuggiva
la necessità di affidare l'organizzazione di questo territorio,
nel quadro della più generale esigenza di riorganizzazione
ecclesiastica, a persone abili nella diplomazia e capaci di conquistare
il consenso dei fedeli: si veda l'esempio di Agnello.
Terra di confine, il sud costiero costringe papa Gregorio a barcamenarsi
tra Bizantini e Longobardi per salvaguardare l'integrità
territoriale ed economica delle diocesi.
Un ulteriore aspetto che avvicina Gregorio Magno a Formia è
l'elemento cultuale e liturgico.
Una particolare forma di nutrimento spirituale per Gregorio era
la ricerca delle vite dei santi come modelli esemplari. Nel primo
libro dei Dialogi si apprende che Gregorio conosce l'esistenza
del monastero di S. Magno di Fondi e dei santi fondani Onorato
e Libertino, dei quali illustra le virtù cristiane e l'amore
per la chiesa.
E' probabile che oltre Fondi abbia avuto memoria di altri santi
venerati tra Fondi e Minturno. E ciò appare verosimile.
Egli, nella menzionata lettera a Bacauda del 590 sull'accorpamento
della diocesi minturnese a Formia, afferma che Formia è
la cattedra "in qua corpus beati Erasmi martyris requiescit
". Questa sottolineatura, rinforzata dall'uso del tempo presente,
racchiude un messaggio che Gregorio invia ai cristiani delle due
diocesi. Conosce il culto di Erasmo, già diffuso ben oltre
Formia; sa che lì nel cuore della diocesi formiana, e cioè
nella cattedrale, è ancora sepolto il vescovo martire;
ricorda l'antichità della diocesi di Formia, giusto titolo
perché Minturno, altrettanto antica, si fondi con essa.
Nell'ottobre del 598 il pontefice scrive ad alcuni vescovi, perché
concedano alcune reliquie dei martiri "sanctuaria beatorum
martyrum in diocesis vestrae locis quiescentium", affinché
l'exprefetto Gregorio possa edificare una basilica in onore dei
santi di quelle diocesi che avessero dato la disponibilità
delle reliquie. La breve missiva non è l'estrinsecazione
di un desiderio, ma assume un tono perentorio: "et ideo,
fratres carissimi, prefati desideriis ex nostra vos praeceptione
convenit oboedire ". La lettera giungerà, tra gli
altri, anche al vescovo formiano Albino, successore di Bacauda.
Le brevi osservazioni sui rapporti tra papa Gregorio e la diocesi
di Formia, in una lettura contestuale dei pochi essenziali documenti,
pongono in risalto l'influsso che esercitò la sua poliedrica
personalità. Queste nostre terre di confine non sono state
considerate dal papa elementi marginali della politica ecclesiastica.
In definitiva Gregorio proseguì nell'attenzione per le
diocesi costiere limitrofe del Lazio intrapresa dai suoi antecessori;
la medesima politica contrassegnerà il pontificato di Onorio
I, Gregorio II e Zaccaria, i quali si preoccuperanno delle massae
e della loro organizzazione. Formia ed il suo vasto enclave rimarranno
sostanzialmente nell'orbita della provincia romana e del ducato
di Roma.
Sul finire del VI secolo Formia è crocevia degli interessi
delle parti in lotta. La città non ha più un ruolo
da poter giuocare e spendere per progetti di più vasta
portata.
Papato e Bizantini hanno una posizione predominante nel Lazio
costiero, anche se interrotta a brevi intervalli, anche se resa
precaria dalle insinuazioni politico-militari dei Longobardi,
ma a costoro mancherà la forza o la volontà politica
di acquisire definitivamente la costa meridionale, attestandosi,
di fatto, oltre il limite naturale del Garigliano.
La diocesi formiana possiederà ancora energie sufficienti,
surrogando le magistrature civili nel compito del controllo del
ristretto territorio e ciò avverrà per la concomitante
presenza di idonee personalità sulla cattedra episcopale.
Si ha menzione del vescovo Bonito, che partecipò al Concilio
lateranense del 649, promosso da papa Martino.
Tale processo proseguirà con ogni probabilità fino
a Adeodato II, che partecipò al Concilio costantinopolitano
III del 680 indetto da papa Agatone.
Sul finire del VII secolo si determina il crollo dell'esperienza
della civitas unitaria e della diocesi formiana. Nella prima metà
dell'VIII secolo il territorio formiano costituiva uno dei latifondi
della Chiesa romana "articolato in massae e governato da
un rector che lo amministrava nell'interesse del papato".
I papi Gregorio II e Zaccaria concedevano in enfiteusi casali
e fundi appartenenti ad almeno quattro massae diverse. In particolare
papa Zaccaria (741-752) ottenne una massa denominata 'da Formia',
che egli organizzò in domusculta.
I confini di tali beni papali, partendo da Formia, giungevano
a Minturno e a Scauri e a nord si congiungevano con altri possedimenti
pontifici nell'agro di Fondi. L'autorità papale, sia giurisdizionale
che politica, si mantenne su questo territorio anche per il IX
secolo.
Il vescovato di Formia possedeva anch'esso un patrimonio nella
zona occidentale, che inglobava una massa denominata con il nome
del santo titolare della Cattedrale formiana.
In breve tempo Gaeta divenne il nuovo polo civile e religioso,
ma restando pur sempre nel Ducato di Roma, o comunque della provincia
romana, almeno fino al 727.
Nel
787 il vescovo formiano Campolo è già attestato
nel castro di Gaeta. Con lui, probabile espressione della nuova
classe egemone gaetana, si chiude il periodo dell'indipendenza
formiana dell'ultima magistratura, quella religiosa. Se rimarrà
il titolo della diocesi formiana, gli atti e le deliberazioni
avverranno nel castro di Gaeta e la cultualità, benché
esercitata a Formia, sarà apparenza della grandezza di
una volta.
Nel fortilizio gaetano, eretto in eccellente posizione strategica
naturale, si stratificherà la società del futuro
ducato e lì si stabilirà il vescovo, seguendo l'esodo
forse per rimanere accanto alla maggioranza o forse, più
semplicemente, per esperire con maggior sicurezza l'esercizio
dell'ufficio pastorale. Così Giovanni, pur appellandosi
episcopus Formianus, emetterà i suoi documenti in Gaeta.
S. Erasmo viene abbandonata dalla corte vescovile: rimangono i
sacerdoti che officiano i riti alla ridotta popolazione dell'arce
romana, che, poi, si denominerà Castellone.
Quando all'orizzonte appariranno i Saraceni, prima sporadicamente
e successivamente in gruppi organizzati, della città romana
resta ben poco: Formia é politicamente e strutturalmente
morta, già una dépendance di Gaeta.
L'846 o l'856 Formia subisce l'ennesimo attacco, ma di distruzione,
in verità, nessun narratore (l'Ostiense, l'Erchemperto,
...) parla, pur avendo costoro descritto con dovizia di particolari
tutti gli assalti e i sacrilegi e gli assedi e le sofferenze delle
popolazioni sotto il ferro saraceno.
Nei primi decenni del secolo decimosesto si comincia a parlare
di una distruzione di Formia da collocare nell'anno 856. A metà
circa del secolo XVIII alcuni scrittori riferiscono dell'anno
846, senza, tuttavia, indicare le fonti dalle quali traggono l'informazione,
citando talvolta in modo improprio la narrazione dell'Ostiense,
riproposta con incerta lettura dell'originale dal Baronio. Trasportate
le reliquie di s. Erasmo e di altri santi martiri in Gaeta , traslati
la cattedra ed il titolo episcopale, il vescovo Ramfo si stabilirà
definitivamente nel castrum e dall'867 si farà chiamare
costantemente episcopus Cajetanus, inaugurando la serie dei vescovi
gaetani.
Come Formia diviene sobborgo di Gaeta, così la chiesa di
S. Erasmo vive in funzione del nuovo polo episcopale.Di Formia
romana non rimane più nulla: gli scribi, i notai e i funzionari,
prima e dopo la permanenza musulmana nel territorio del Formianum,
la chiameranno civitas solo per un fatto meramente formale.
Un quarantennio di scorribande fino all'881 sgretolava definitivamente
l'unità del territorio cittadino dal monte al mare, dalla
riviera di ponente a quella di levante. Una parte di Formiani
restava nel municipium, restando a contatto con il pericolo saraceno,
dopo che s'era già verificato in passato un travaso di
abitanti nella sicura Gaeta. La popolazione si era stanziata per
una parte nell'agglomerato urbano sito sull'arce, recinto da mura
e tramutatosi ben presto in un castello murato, per l'altra parte
nella striscia compresa tra il mare e l'Appia a ridosso di una
rada naturale.
Il primo nucleo si denominerà Castellone, il secondo Mola.
L'uno si svilupperà come rocca della civiltà contadina,
l'altro come borgo legato alle attività connesse alla pesca.
Formia:
via dei Gradoni del Duomo
Il destino di Mola dipenderà dal reticolo commerciale e
di trasformazione, che le consentirà di mantenere rapporti
strettissimi con Gaeta. La sorte del Castellone sarà determinata
in larga misura dalle vicissitudini dell'antica cattedrale di
S.Erasmo. Dalla chiesa e dal cenobio annesso prenderà avvio
una forma di signoria feudale, ad un tempo spirituale e temporale,
degli abati benedettini prima cassinesi e poi, raggiunta l'autonomia
secondo consuetudine, castellonesi.
Di Mola già parlò l'Ostiense nell'880 definendo
la zona bassa di Formia "ad Molas". Girolamo Gattola
attribuiva il nome "verosimilmente dalle molte mole ovvero
macine che quivi erano per l'abbondanza di acque".
L'acqua ed il luogo si prestano all'innesto di attività
redditizie. Nel X secolo con il progressivo incremento delle macine
ad acqua Mola è punto nodale industriale di trasformazione
delle olive e del grano.
Nel 906 un servo di Mola veniva affrancato dalla schiavitù
dal duca Docibile I.
Mola in questo periodo si configura come entità precisa,
che si sviluppa attorno alla chiesa di S. Lorenzo con una fisionomia
abbastanza delineata. La crescita dell'abitato trova riscontro
nei documenti del Codex. Nel 1120 il nucleo abitativo viene definito
Burgum mole.
Da quanto è dato conoscere Mola vive soprattutto del frutto
dei vigneti, delle terre seminative, degli orti; i caseggiati
si estendono lungo l'asse che, partendo dai resti dell'acquedotto
romano, giunge sino al mare.
Nel testamento di Gregorio, redatto nel 1024, si affida la costruzione
di un mulino ad acqua posizionato a Mola. Si è a conoscenza
dell'esistenza di un mulino detto della Palude (o sotto la Palude)
di proprietà della chiesa di S. Erasmo. Ciò non
deve meravigliare perché è norma comune che i Castellonesi
abbiano proprietà a Mola e non viceversa: tale dato si
è conservato fino all'anteguerra. Codex e Rubrica delle
carte trattano estesamente di mulini e montani azionati ad acqua,
la gran parte dei quali si trovano a Mola.
Intorno al IX secolo, forse poco più tardi, si erano creati
impaludamenti extra moenia in prossimità degli sbocchi
dei corsi d'acqua verso il mare. Si potrebbe pensare che comunque
tale situazione non sia stata permanente: con l'incremento dell'attività
produttiva i duchi gaetani avevano promosso un'opera di bonifica
in coincidenza con il ripristino del porto ed il riattamento delle
mura al fine di rendere più remunerativa l'attività
di molini e montani con il trasporto diretto dei prodotti via
mare verso Gaeta.
Il Castellone sorge sul punto più eminente dell'acropoli
romana , aveva tutt'intorno robuste mura, oggetto di ripetuti
consolidamenti. Nel 944 il duca Docibile II finanziava la riparazione
non appena s'erano allentate le tensioni sul ducato.
Girolamo Gattola sostiene che Castellone abbia avuto origine nel
XIV secolo, avendo trovato una notizia datata 1312 presso la Real
Zecca, nella quale si legge di un ordine del re Roberto in risposta
ad una supplica rivoltagli da fra Giacomo, abate di S.Erasmo.
Lo stesso autore rammenta che in una pergamena custodita presso
il monastero di S.Angelo in Planciano ricorre la dicitura "Monjstero
di S.Erasmo Castri Castellionj". Nel Codex la chiesa di S.Erasmo
è detta di Castellone per la prima volta nel 1305 ; il
1 gennaio 1364 l'itrano Nicola Gallozzi lascia nel proprio testamento
un'offerta pro "pauperibus Castellonis".
La Rubrica delle carte attesta che il toponimo è più
antico. Gregorio Ploja, notaio in Gaeta, predispone la copia di
una bolla pontificia di Innocenzo II datata 1143 diretta a "Giovanni
abbate del Monastero di S.Erasmo di Castellone".
Nella Rubrica delle carte si ricorda all'anno 1197 la "donazione
fatta da Riccardo dell'Aquila conte di Fondi al Monastero di S.Erasmo
di Castellone, che dicevasi Formia e per esso al di lui abbate
Diodato avo del detto Conte.".
Castellone non è stato mai stato definito borgo ma semplicemente
"terra murata": sembra per questo privo di una struttura
amministrativa laica autonoma, almeno agli inizi.
L'agglomerato di Castellone era legato al cenobio di S.Erasmo
da una forma di subordinazione feudale.
Si sa che coloni e fittavoli vivono nell'845 e nel 919 nella masseria
di S.Erasmo. La lavorazione della terra è caratteristica
peculiare dell'economia castellonese: cessioni, permute, contratti
enfiteotici a terza generazione ed altri atti di varia natura
e garanzia sono stipulati dal monastero, che arricchisce la quantità
e la qualità dei suoi possedimenti. La stessa chiesa ha
tutt'intorno molino, orti, cortili, vigne e terreni seminativi.
Non si é a conoscenza dei danni prodotti alla chiesa e
al Castellone dalla colonia saracena (se di distruzione si può
parlare alla luce delle recenti ricognizioni archeologiche), ma
é probabile che l'incuria abbia degradato parizalmente
le strutture del luogo di culto.Passato il pericolo musulmano
dopo la battaglia del Garigliano del 915 e consolidatasi notevolmente
Gaeta con il raggiungimento della maturazione piena dell'esperienza
ducale, i duchi Docibile II e Giovanni si impegnano a riattivare
le strutture urbiche utili di Formia.
Permettono la riparazione del porto, delle mura ed il rifacimento
delle parti danneggiate della chiesa di S. Erasmo. Nel 934 gli
stessi duchi concedono il tempio a Bona e a suo figlio Leone.
Nel 944 il duca Giovanni, non essendo ancora morto Docibile II,
affida la chiesa al proprio fratello Leone con il patto che Bona
ed il figliolo di costei possano continuare a goderne i frutti
vita loro natural durante.
Nel 1016 la chiesa risulta possedere un monastero, di cui è
abate il monaco Stefano.
A circa metà del secolo i monaci di Montecassino progettano
l'inglobamento del tempio S. Erasmo e dell'annessa struttura cenobitica.I
Cassinesi avevano posto termine all'esilio iniziato con la dolorosa
esperienza saracena.
Chiesa
di S. Erasmo e complesso monumetale
A
metà del X secolo Aligerno riporta i Benedettini all'antico
cenobio: con volontà e perseveranza i monaci commissionano
la ricostruzione di chiese, villaggi, creano forme di sostegno
alle atttività fondiarie, si battono per la reintegra dei
vecchi possedimenti utilizzando gli atti originali o ricostruiti,
concedono i livelli per le terre.
Provenendo dal cenobio madre, un gruppo di Cassinesi in linea
con il progetto aligerniano giungerà presso il colle di
S. Maria la Noce. Fonda probabilmente un piccolo cenobio, fuori
dalle mura formiane, così come prescriveva la consuetudine
monastica. La piccola chiesa, risalente nella sua veste architettonica
al X secolo circa , non é il vero obiettivo dei Benedettini,
quanto un punto d'appoggio per ottenere l'antica sede della cattedrale
di Formia, proprietà della famiglia ducale.Con tenacia
i monaci riportano la zona alta della civitas romana (Castellone)
nella condizione di poter ospitare maggiori nuclei familiari;
commissionano il recupero delle rovine, migliorano il sistema
delle mura, strutturano la micro società secondo i canoni
della signoria feudale. L'acquisizione della chiesa di S. Erasmo
non è nè immediata nè scontata.
Nel 1058 Giordano I, principe di Capua, cede la chiesa all'abate
di Montecassino Desiderio , ma il Fedele ritiene il documento
un falso.
Il monastero castellonese acquisisce tra il 1062 ed il 1066 chiese
e terre sul versante marino.
Si realizza il sogno di Desiderio: aprire per l'abbazia di Montecassino
uno sbocco a mare. Desiderio entra in tutti i principali contratti
riguardanti il territorio compreso tra Traetto ed il Garigliano
, riuscendo a creare un corridoio tra la riva sinistra (il pantano
di Minturno e la terra di Sujo) e la riva destra nei lembi terminali
del Sessano, al fine di sfruttare la navigabilità del fiume.
E l'iniziale progetto si definisce meglio ed include un punto
di controllo diretto sul territorio, dal quale i monaci potessero
in loco tutelare e favorire gli interessi dell'abbazia madre.
È in questo breve lasso di tempo che si consuma il passaggio
di S. Erasmo nelle mani dei Cassinesi. Probabilmente il termine
post quem può essere considerato proprio l'anno 1062 a
motivo delle acquisizioni operate dalla chiesa di S. Erasmo, acquisizioni
iniziate con il 1062 e poi progressivamente accentuate: la sequenza
indicherebbe una gradazione ben precisa di contro alla quasi totale
assenza di transazioni anteriori al 1062.
Definito "Hominem in saeculo potentem" dal pontefice
Gregorio VII (a detta di Guglielmo di Malmesbury) , Desiderio,
a compimento del suo disegno, fa incidere nel 1066 il portale
bronzeo dell'abbazia benedettina con l'elenco dei cospicui possedimenti.
Tra le molte chiese spicca pure il nome di S. Erasmo , che evidentemente
era stata da poco traslata nelle mani dei Benedettini.
La conferma vien data dalla lettura della carta di donazione di
due terre all'abate Marino della chiesa di S. Erasmo "in
civitate furmiana iam diruta" e "in ordine coenobiali
ordinata".
Da questo momento il cenobio castellonese inizerà un periodo
di splendore che durerà per l'intero basso medioevo e l'antica
città, smembratasi da alcuni secoli nei centri di Mola
e Castellone, rimarrà divisa fino alla riunificazione decretata
all'alba dell'Unità d'Italia.
Il
saggio di R. Frecentese è tratto da A. G. Miele - R. Frecentese,
Formia. Itinerario tra origini e AltoMedioevo. Storia e monumenti.
Palombi, Roma, 1995, pp.36-57.
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