Durante
l'età ducale gaetana della dinastia indigena dei Docibile
(IX-XII secolo) il distretto dell'antica Formia si trovò
diviso nei due centri abitati di Mola e Castellone. I rapporti
tra la famiglia ducale e l'abbazia di Montecassino, principale
fonte di irradiazione del monachesimo in terra gaetana, furono
intensi. Ma ancor prima del IX secolo il monachesimo benedettino
aveva avuto modo di far sentire la forza dell'ideale monastico
almeno dal VI secolo. L'obbedienza cassinese non risolveva in
sè l'intera esperienza cenobitica benedettina.
Nel 552 Mabillon ricorda la costruzione del monastero di S. Magno
ad opera di s. Onorato, identificando quell'edificio con il cenobio
menzionato nei "Dialoghi" di Gregorio Magno. Il cenobio
ne esaltava l'importanza e la centralità a causa della
fama dovuta alle grandi ricchezze lì accumulate.
Un altro centro monastico è rammentato da Gregorio Magno
nell'isola Eumorfiana nel 591; ma è incerta l'identificazione
con Ponza né è tramandato il tipo di osservanza.
La lettera di papa Leone III dell'812 inviata a Carlo Magno riferisce
di alcuni monaci dimoranti nell'isola di Ponza senza, però,
riferire il tipo di osservanza.
Se l'identificazione dei due centri non appare certa è
comunque interessante notare che il monachesimo non fu assente
dal territorio dell'antico Formianum.
Infatti le prime certe testimonianze di cenobi benedettini nell'area
del ducato di Gaeta prima del Mille riguardano (tra parentesi
la data del primo documento conservato):
- S. Saba in Sperlonga (890);
- S. Michele Arcangelo in Planciano in Gaeta (930). La chiesa
è menzionata già nell'899;
- S. Benedetto in Gaeta (943).La chiesa è attestata nell'835;
- S. Maria detto "delle monache" in Gaeta (954);
- SS. Teodoro e Martino in Gaeta (957). La chiesa risale al 906;
- S. Giovanni Battista della Porta in Gaeta (963);
- S. Magno in Sperlonga (963);
- S. Nicola in Zannone (976);
- S. Michele Arcangelo di monte Altino in Maranola (978). Nell'830
(?) viene ricordato con la dizione oratorio;
- S. Magno in Fondi (979).
Cosicché
S. Benedetto, S. Michele arcangelo in Planciano in Gaeta e S.
Saba in Sperlonga avevano comunità monastiche prima del
ritorno dei monaci cassinesi nel cenobio madre, ricostruito sotto
l'abate Giovanni I (913-834) e suoi successori. Nel 949 Aligerno
(949-986) aveva ricondotto i monaci a Montecassino dopo la permanenza
capuana, che era seguita alla distruzione saracena ed all'uccisione
dell'abate Bertario.
Come si può notare la presenza monastica benedettina nel
territorio ducale tra IX e X secolo è collocata tra i centri
di Fondi-Sperlonga e Gaeta con le appendici dell'eremo di S. Michele
Arcangelo nel territorio di Maranola e l'incerta osservanza di
S. Nicola di Zannone.
In realtà lo sviluppo del monachesimo nel ducato di Gaeta
passa attraverso due fasi, così come sottolineato da M.
Dell'Omo.
Una prima fase, scandita da due periodi strettamente connessi,
tra IX secolo fino alla soglia dell'XI secolo; la seconda tra
XI e XII secolo.
Nel primo periodo della prima fase (sec. IX) Gaeta, pur sotto
l'autorità nominale bizantina, tende a creare un'autonomia
politica. Iniziano a svilupparsi le fondazioni monastiche. Nel
secondo periodo (sec. X fino al limitare dell'XI) il potere ducale
di Gaeta si erge a struttura autonoma sia rispetto al dominio
imperiale sia nei confronti del vescovato. La famiglia ducale
tende a favorire l'impianto dei centri monastici, inserendoli
nel tessuto cittadino. Si assiste come logica conseguenza all'incremento
delle donazioni a favore delle fondazioni cenobitiche.
L'interesse filo monastico dei Docibile viene contrassegnato da
interessi economici e per la precisa consapevolezza di raggiunta
identità politica. Anche nei confronti dell'episcopato
si assiste all'esplicitazione di forme di indipendenza rispetto
alla famiglia ducale, pur essendo il vescovo proveniente dalla
medesima famiglia dei Docibile. Ma è vero anche il contrario,
e cioè che il vescovo, consapevole della debolezza della
famiglia dinastica e del proprio ruolo ecclesiale, tende a distaccarsi
dalla struttura ducale.
La seconda fase (secc. XI-XII) coincide con lo splendore dell'abbazia
di Montecassino e del suo rafforzamento sul territorio. La chiesa
di S. Erasmo rientra tra le molte donazioni consegnate ai monaci
cassinesi. Queste chiese e cenobi erano in mano a laici anche
con trasmissione ereditaria di tali beni. Nel caso di S. Erasmo
si era di fronte ad un giuspatronato della famiglia dei Docibile.
Le donazioni avvenivano in coincidenza con l'espansionismo normanno
nel ducato di Gaeta, che seguiva quello sul principato di Capua
con Riccardo I ed il figlio Giordano I. Il culmine di quest'opera
veniva raggiunto con l'annessione del ducato di Gaeta. L'ondata
normanna spingeva alle donazioni per evitare che i beni ecclesiastici
cadessero nelle mani dei nuovi dominatori. È conosciuta
la vicinanza tra Benedettini e Normanni e come a ciò, anche
se attraverso complesse vicende, si aggiungeva un rinnovato interesse
del Papato per Gaeta. Nella seconda metà del XII secolo
numerosi privilegi pontifici venivano concessi ai centri di vita
monastica.
Le numerose donazioni erano la spia del prestigio economico-politico
raggiunto dall'abbazia di Montecassino, che è tuttavia
comprensibile soltanto se unito al prestigio, forse ancor più
significativo, raggiunto sul piano spirituale.
È stato studiato il ruolo dei monasteri più grandi
nei centri urbani ed il loro influsso sul territorio circostante.
Di notevole interesse paiono le conclusioni che attesterebbero
la capacità degli abati di entrare nelle scelte politiche
ben oltre i limiti della propria circoscrizione.
Tra XIII e XIV secolo il monachesimo benedettino cassinese attraversa
una crisi piuttosto profonda soprattutto nelle città, sulla
quale si innestavano nuove esigenze che venivano rappresentate
da obbedienze dei rami benedettini maggiormente capaci di rappresentare
le nuove spinte dell'evangelizzazione e di riforma ecclesiale.
Trai monasteri benedettini di rilievo va menzionato il complesso
monumentale di S. Erasmo.
Il cenobio di S. Erasmo veniva ricordato come monastero retto
dall'abate Stefano soltanto nel 1016, secondo il Codex Diplomaticus
Cajetanus (= C.D.C., I, CXXXII).
Ma a parte quest'indicazione un vero e proprio insediamento benedettino
cassinese si ebbe soltanto per opera dell'abate Desiderio. La
donazione di Giordano I della chiesa di S. Erasmo a Montecassino
del 1058 è stata dimostrata un falso.
L'acquisizione era comunque certa già nel 1066 con l'iscrizione
del nome della chiesa ex cattedrale formiana nel portale bronzeo
dell'abbazia di Montecassino. Nell'XI secolo si era assistito
nel ducato di Gaeta al rafforzamento della presenza cassinese
soprattutto nelle chiese racchiuse nella cinta urbica di Gaeta
e dell'ex cattedrale di Formia. In questo modo veniva assicurato
il controllo sulle principali reti di comunicazione stradale,
marittima e fluviale, il rapporto con i maggiori centri demici
di Fondi, Gaeta e Castellone e la collocazione dei cenobi su alcuni
dei punti dominanti il territorio (S. Michele Arcangelo nel Castello
a Gaeta, S. Michele Arcangelo su monte Altino, S. Erasmo nei pressi
dell'arce di Castellone con la grancia di S. Maria la Noce sul
monte Caprile).
Questa distribuzione sul territorio consentiva di raccordare diverse
esigenze: dal controllo sul territorio, reso vantaggioso dal regime
delle esazioni e delle protezioni pontificie, alla sicurezza dello
sbocco a mare con il controllo della riva destra del Garigliano,
la perimetrazione di strutture economicamente autosufficienti
con una invasiva economia sul territorio. Probabilmente lo sviluppo
degli insediamenti monastici venne favorito dalle positive relazioni
con la famiglia ducale e poi dall'ascesa normanna.
È notoria l'alleanza di papa Gregorio VII con i Normanni,
così come buoni rapporti intrattenne l'abate Desiderio
(1058-1087), salito al soglio pontificio come successore di Gregorio
VII con il nome di Vittore III per un brevissimo pontificato,
che precedette il decennio di Urbano II.
Con lo sbocco a mare si otteneva sicurezza nel controllo del traffico,
si evitava il pagamento di numerosi dazi. Così con l'acquisto
del porto di Suio, si realizzò un passaggio ed approdo
indipendente. Con l'accumulo di altri possedimenti il cenobio
di S. Erasmo completava ed integrava l'acquisto di beni e castelli
lungo l'antica via Ercolanea e lungo il corso del fiume. Nel 1087
al termine del suo pontificato, Vittore III emanò un provvedimento
con il quale minacciava di anatema l'alienazione dei beni acquisiti
dal cenobio senza il preventivo assenso dell'abate.
Arcidiocesi
di Gaeta. Museo diocesano: iconografia da Exultet.
Provenendo dal cenobio madre, un gruppo di Benedettini, per attuare
il progetto promosso dall'abate cassinese Aligerno, giunse presso
il colle di S. Maria la Noce. Fondò un piccolo romitorio,
fuori dalle mura formiane, così come prescriveva la consuetudine
monastica. La piccola chiesa, risalente nella sua veste architettonica
al X secolo circa, non era il vero obiettivo dei Benedettini,
quanto un punto d'appoggio per ottenere l'antica sede della ex
cattedrale di Formia.
La cessione della chiesa erasmiana, in possesso della famiglia
ducale ed affidata ad un gruppo di monaci, non fu immediata.
Il monastero castellonese ottenne tra il 1062 ed il 1066 chiese
e terre sul versante marino. E ciò coincideva con il sogno
dell'abate Desiderio di aprire per l'abbazia di Montecassino uno
sbocco a mare. Proprio in questo breve lasso di tempo si consumò
il passaggio di S. Erasmo nelle mani dei Cassinesi. Desiderio
entrò in tutti i principali contratti riguardanti il territorio
compreso tra Traetto ed il Garigliano, riuscendo a creare un corridoio
tra la riva destra (il pantano di Minturno e la terra di Sujo)
e la riva sinistra nei lembi terminali del Sessano, al fine di
sfruttare la navigabilità del fiume. I documenti del pongono
in risalto l'intensa attività dell'abate.
La conferma dell'avvenuta cessione del cenobio erasmiano scaturisce
dalla lettura della carta di donazione di due terre all'abate
Marino della chiesa di S. Erasmo "in civitate furmiana iam
diruta" e "in ordine coenobiali ordinata" (C.D.C.,
II, CCVI).
Il duca Riccardo I donò a Montecassino numerose concessioni,
permute di territori confiscati ai principi longobardi, così
come i pontefici confermarono i vasti possedimenti e la giurisdizione
del cenobio assieme ad ampi privilegi.
Urbano II (1088-1099) protesse i cenobi dall'ingerenza dei vescovi
limitando il potere di questi ultimi all'ordinazione degli abati
ed alla consacrazione delle chiese. Nessun vescovo poteva entrare
nel territorio del cenobio per ordinare sacerdoti o consacrare
senza l'invito dell'abate. Con altrettanta forza proibì
l'intervento dei laici nel territorio del monastero. Il papa,
già priore di Cluny, aveva concesso all'abate del monastero
di Lorenzo di Aversa il privilegio della mitria e dell'anello
episcopale.
Un influsso indiretto dell'esperienza cluniacense venne maturato
con la particolare devozione per le anime dei defunti, che nel
cenobio di S. Erasmo si attestò per lunghissimo tempo.
All'anno 1539 viene fatto risalire l'atto di fondazione della
Congregazione laicale di S. Probo, detta anche dei suffragi per
le anime dei defunti.
In più l'abbazia non solo divenne esente ma venne sottoposta
unicamente alla Santa Sede, quasi una sua proprietà e sotto
la personale giurisdizione del papa.
Non è un caso che durante il pontificato di Urbano II sulla
cattedra episcopale gaetana sedettero alcuni vescovi monaci cassinesi.
Il pontefice fu conciliante con i Normanni ed intrattenne buoni
rapporti con il principe di Capua Giordano I, tanto che consacrò
Guitmondo vescovo di Aversa, persona gradita al principe capuano.
Trainato da quello cassinese, il monastero formiano accelerò
la propria crescita. I monaci crescevano in numero e gli abati
provenivano probabilmente da nobili famiglie, come ricordato per
il ricco Gregorio, figlio di Joanni da la Fur... (C.D.C, II, CCXXXII),
che promise di farsi monaco, cedendo nel frattempo le sue proprietà.
L'abate castellonese ricevette numerose donazioni e la sua persona
era circondata da rispetto tanto da entrare ormai in tutte le
controversie che possano riguardare le terre del comprensorio.
Nel 1071 il vescovo di Gaeta Leone IV (1049-1089) presenziò
alla consacrazione della chiesa di S. Benedetto a Montecassino,
rinnovandosi così un'attenzione particolare della diocesi
gaetana con Montecassino.
Nel 1075 Goffredo Ridello, conte di Pontecorvo, (C.D.C., II, CCXLVIIII)
e nel 1079 Giovanni, comes di Sujo (C.D.C., II, CCLII), offrono
a Desiderio il monastero formiano per la parte loro spettante:
probabilmente non si tratta di una vera cessione quanto piuttosto
di una formula di conferma dell'operato dei loro predecessori.
Il privilegio di papa Pasquale II (1099-1118) del 1099 sancì
la protezione pontificia sul cenobio formiano; quelli di Callisto
II (1112-1124) del 1122, di Innocenzo II (1130-1143) del 1138-1143,
di Anastasio IV (1153-1154) del 1153-1154, di Alessandro III (1159-1181)
del 1159, di Clemente III (1188-1191) del 1188 confermarono i
precedenti beni, assegnando l'intero Castellone, liberandolo dalle
esazioni vescovili e laicali, concedendo facoltà d'ordinazione
dei monaci, d'elezione dell'abate e di ingresso dei vescovi invitati
nel cenobio per tenere solenni liturgie e sermoni (RdC, 4).
Ma la pacifica dipendenza pontificia non fu così lineare.
Infatti con Adriano IV (1154-1159) nel 1159 (C.D.C., II, CCCXLV)
e poi con Alessandro III (1159-1181) nel 1170 (C.D.C., II, CCCLI)
il cenobio sembrò tornare per breve tempo alla dipendenza
diocesana in possesso del vescovo.
Il Lancellotti sostiene che il possesso del Castellone, così
come configurato nel privilegio del 1143, fu una vera e propria
signoria spirituale e temporale.
Il cenobio veniva ricordato nel diploma dell'imperatore Lotario
III del 1137.
Raggiunto l'acme dell'espansione territoriale e nel momento di
maggior rilevanza politica, la famiglia ducale frazionò
il ducato gaetano in piccole entità circoscrizionali affidate
ai suoi membri, che si ritirarono in castelli dai quali governare
la propria porzione. Il fenomeno dell'incastellamento segnò
l'inizio della crisi dell'esperienza ducale, crisi che si concretò
con il passaggio del titolo ducale nelle mani di Riccardo II dell'Aquila.
Venuto meno il diretto rapporto con il potere centrale, si fecero
più pressanti le spinte autonomistiche.
Gli abati castellonesi sollecitarono gli imperatori a prendere
il cenobio sotto la loro protezione; la famiglia di Riccardo dell'Aquila
si pregiò di donare terre e benefici (RdC, 11).
La dipendenza cassinese di S. Erasmo rifletteva in loco la predominanza
sull'intera diocesi di Gaeta dell'abbazia di Montecassino. Per
un cinquantennio circa i vescovi di Gaeta appartennero all'Ordine
di s. Benedetto.
I passaggi, però, non compromisero la maggiore espansione
dei beni del cenobio: i possedimenti giungevano oltre il Garigliano
fino a Sessa e Mondragone, includendo il versante dei monti che
si estendeva verso Itri.
Tra i privilegi connessi alla funzione di abate figurava il possesso
di una corte con giardini denominata volgarmente la corte dell'Abbate,
circoscritta nell'area dell'attuale sito della chiesa di S. Teresa
di Formia.
L'intervento personale dell'imperatore Federico II spense gli
"appetiti " dei baroni, che avevano puntato le loro
mire sul tempio e cenobio (RdC, 13).
Nel XII secolo si riversò su Montecassino una rinnovata
attenzione dei pontefici, che concessero una serie di privilegi,
che, indirettamente, procurarono vantaggio ai cenobi dipendenti
dall'abbazia madre.
Tra il XII ed il XIII secolo i beni raggiunsero discrete proporzioni
per entità e qualità. Il sistema agricolo appariva
variegato e le coltivazioni, pure di varietà pregiate,
si sviluppavano nelle diverse forme delle cese, delle possessioni,
delle tese, dei pastini in modo che la produzione occupasse tutti
i terreni per dimensioni e localizzazioni. Il sistema irriguo
e l'impianto delle chiuse garantivano il supporto alla produzione.
L'industria di trasformazione dei prodotti agricoli si localizzava
nel lembo di terra tra Mola e Gianola.
La riscossione dei tributi e dei canoni periodici, le donazioni
sempre più numerose, la cessione delle campagne in enfiteusi
movimentavano in positivo le entrate. L'economia era sostanzialmente
florida e le attività pubbliche e private parevano passare
tra le mani dell'abate, che concedeva il suo assenso e mostrava
una discreta capacità imprenditoriale.
Il monastero provvedeva alla miglioria dei beni più lontani
(a Mondragone) e sottoscriveva patti che prevedevano la parziale
costruzione di case (da intendersi in realtà stanze) a
proprio carico (RdC, 32).
Identica preoccupazione era rivolta verso la rete viaria. Strade
efficienti ed opportunamente collocate agevolano le comunicazioni
e gli spostamenti dei prodotti, cosicché si decideva di
aprire anche un segmento che congiungesse la strada pubblica (l'Appia?)
con le falde del monte di Piroli (RdC, 38).
I privilegi pontifici furono rinnovati. Si ricordano in particolare
le bolle di Innocenzo III (1198-1216) del 1208, di Onorio III
(1216-1227) del 1216, di Urbano V (1362-1370) del 1369.
L'ingrandimento del cenobio castellonese comportò nuovi
contatti con altre comunità civili e religiose. Il clero
ordinario sentì l'influenza dei Benedettini e creò
forme di autotutela dei propri interessi, ma quando i conflitti
non erano componibili entrò in giuoco la figura del vescovo
di Gaeta, al quale le parti si appellavano per un giudizio super
partes.
Gli abitanti del Castellone firmarono una carta di concordia con
l'abate il 2 maggio 1339, probabilmente per porre fine al contrasto
sulla corrispondenza tra diritti e doveri feudali. Nell'intesa
si stabiliva il rituale del vassallaggio: il Castellonese doveva
la genuflessione, il bacio della mano; l'abate garantiva il suddito
con l'osculum secondo la prassi feudale. Ogni alienazione di beni
avveniva soltanto "consensu expresso et licentia Abbatis"
(I manoscritti, 1).
Buoni permanevano i rapporti con re Roberto, che rispondeva favorevolmente
alla supplica rivoltagli nel 1312 da fra Giacomo, abate del Castellone.
Era il periodo, quello dei primi decenni del XIV secolo tra i
più favorevoli al cenobio. La capacità economica
e la consistenza patrimoniale avevano raggiunto punte di notevole
livello se si considera che il monastero di S. Erasmo tra 1308
e 1310 versava alla Reverenda Camera Apostolica sei once d'oro
ed alla mensa vescovile della diocesi di Gaeta 7 once d'oro. Appena
cinque once erano attribuite al monastero di S. Teodoro di Gaeta.
Questa specifica grandezza economica si traduceva in dominante
politica sul territorio.
Le maggiori abbazie erano irradiatrici di cultura, spiritualità
e vennero coinvolte o furono promotrici di forti interessi politici;
quelle minori con minore complessità di attività
erano legate alle situazioni locali e alle strutture urbiche di
riferimento e fondavano la loro funzione su un profilo più
squisitamente spirituale.
I centri intermedi, come S. Erasmo, avevano una particolare condizione
spirituale, ma riuscivano ad assolvere un ruolo spesso non limitato
alla località urbana, ma esercitavano un concreto potere
politico ed economico extra urbano.
La fedeltà ai reali costò al monastero ed al Castellone:
su di essi si scagliò la violenza di Nicolò Caetani,
conte di Fondi, per punirli dell'alleanza con la regina Giovanna
I, contro la quale aveva mosso guerra tra il 1346 ed il 1347.
Il periodo non è tra i più facili. Appena nel 1341
si era conclusa la lunga diatriba per l'elezione del nuovo abate
(RdC, 62-73).
Suppliche, contestazioni, appelli dei pretendenti erano giunti
sino alla Curia spostatasi ad Avignone per ottenere la conferma
papale.
La spuntò Giovanni di Gregorio Botulante: sotto il suo
abbaziato cominciò un lungo periodo di stabilità
(1341-1369).
Al tempo della permanenza del pontefice ad Avignone e dello scisma
d'Occidente si indebolì la struttura di governo ecclesiastica
locale, tanto che si aprirono ampi spazi di penetrazione da parte
di forze socio-economiche laicali che aspiravano ad esercitare
il loro controllo su prebende, benefici ed in genere sulle proprietà
ecclesiastiche.
Rinnovò le enfiteusi già concesse in passato per
attrarre al monastero i contadini onde assicurare certezza di
entrate. Favorì la costruzione di nuovi montani ed organizzò
un adeguato sistema di molini ad acqua a Mola per ammodernare
la rete di trasformazione dei prodotti agricoli.
Sotto l'episcopato di Ruggieri Frezza da Ravello le vendite e
la commutazione dei beni portavano il consenso congiunto del vescovo
e dell'abate.
L'abate Giovanni nel 1383 venne nominato Collettore delle diocesi
vicine dalla Curia romana al fine di frenare le pretese dei "fautori
dell'antipapa Clemente VII" (RdC, 102).
Il tempo guastò i rapporti con gli abitanti del Castellone,
oramai possesso dei Caetani, ed affiorarono contrasti tra i monaci
del cenobio di S. Erasmo. Un infelice episodio spinse papa Martino
V ad imporre all'arciprete della Cattedrale di Gaeta la risoluzione
della delicata vicenda del priorato della chiesa di S. Nicolò
di Spigno, attribuito ad un religioso spacciatosi per monaco del
monastero castellonese (RdC, 115).
La bolla pontificia rimise in discussione le nomine degli abati
e ristabilì la situazione quo ante. A Castellone ritornò
così il vecchio abate per riportare un po' d'ordine tra
i monaci.
L'esosità dei vincoli trascinò la popolazione a
continue rivalse e la risposta dei Benedettini non si fece attendere.
Scese in campo la regina Giovanna II, che, memore dell'aiuto concesso
alla sua ava Giovanna I, fece sì che l'abate Giovanni Gattola
entrasse nel pieno possesso dei diritti usurpati dai Castellonesi
(RdC, 120).
La lite, però, ebbe un seguito. L'anno seguente, infatti,
di fronte al regio consigliere Goffredo di Gaeta, a ciò
espressamente delegato, comparvero i contendenti (RdC, 121).
Si entrava in un particolare periodo storico, nel quale le abbazie
divennero appetibili a tal punto che si instaurò in molte
di esse economicamente prospere il regime della commenda.
Il cardinale Ludovico Trevisan, primo abate commendatario dell'abbazia
di Montecassino, si recò a Mola il 23 giugno 1456 per conferire
il beneficio di S. Cataldo, fuori il castello di S. Elia, impegnandosi
a favore del proprio cenobio anche lontano da esso.
L'abate di S. Erasmo Giovanni Gattola venne promosso vescovo di
Venafro l'anno 1468 e l'abbazia venne affidata in commenda (RdC,
140).
Nella seconda metà del XV secolo le più prestigiose
e ricche commende venivano riservate agli ecclesiastici e ai cardinali
dell'entourage pontificio, tra i quali spiccava Giuliano della
Rovere.
Tra le abbazie affidate in commenda bisogna aggiungere quelle
di S. Magno, S. Angelo in Planciano, S. Maria di Ponza che traslato
sulla terra ferma dal 1414 era implantata a Mola.
Nel XIII secolo proprio S. Angelo in Planciano era decaduto e
si trovò aggregato a S. Maria di Ponza, un cenobio di osservanza
cistercense, che, a sua volta, sotto Onorio II, dipese dall'abbazia
di Fossanova.
Nel 1472 fino alla cessione del cenobio la commenda di S. Erasmo
passò nelle mani proprio del cardinal Giuliano della Rovere,
nipote di Sisto IV, e futuro papa con il nome di Giulio II (RdC,
144). Il cardinale la governò tramite procuratori, tra
i quali si ricordano Costanzo de Urbe, Nicola Sacco di S. Nucito,
Gregorio de Senis.
La commenda, oltre che effetti positivi, provocò senz'altro
danni ai cenobi. Tra questi occorre citare l'assenza dei superiori
abati commendatari, per cui nel cenobio si assisteva ad un'amministrazione
negligente che invece di conservare le risorse le scremava, alla
mancanza di disciplina tra i monaci ed alla disaffezione dei laici,
ricadenti nella giurisdizione, verso il monastero.
Cosicché aumentava la resistenza al pagamento delle rendite
dovute al cenobio e le nuove donazioni venivano meno. Infatti
questo sistema diveniva virtuoso a patto che gli abati commendatari
mostrassero sensibilità verso le problematiche economiche.
Nel 1474 Sisto IV (1471-1484) accordò al cenobio un nuovo
privilegio.
L'interesse per l'abbazia formiana da parte della Congregazione
di Monte Oliveto e l'offerta di una pensione annua di 334 ducati
d'oro spinsero il cardinale commendatario, vescovo d'Ostia e titolare
di S. Pietro in Vincoli, a cedere la badia alla Congregazione
benedettina di Monte Oliveto nel 1490 (RdC, 154).
Papa Innocenzo VIII (1484-1492) acconsentì con propria
bolla; e ugualmente il re Ferdinando con l'interessamento del
figlio Alfonso II, stilò il diploma reale di assenso. Era
il 12 dicembre 1491 (Bolle, ff. 34r-45r).
Formia:
via F. Rubino. Stemma di Monte Oliveto Maggiore
Gli Olivetani presero possesso materiale l'anno successivo (RdC,
155); nel gennaio del 1493 elessero il loro primo abate: fra Tommaso
di Brabanza.
Stesso destino ebbe il cenobio di S. Magno di Fondi, collocato
anch'esso sull'Appia, che, contrariamente a quello di S. Erasmo
non aveva raggiunto una propria autonomia. La Congregazione benedettina
di S. Giustina in Montecassino aveva affidato in commenda quel
monastero al cardinal Giordano Caetani.
Nel 1492 si ebbe la cessione di S. Magno. Giordano Gaetani, arcivescovo
di Capua dal 1447, abate commendatario dal 1469, trasferì
il monastero agli Olivetani in cambio di undici ducati annui di
pensione. La bolla venne stilata da Alessandro VI.
I due cenobi, posizionati lungo l'Appia tra Roma e Napoli, erano
entrati nelle mire dell'Ordine di Monte Oliveto Maggiore che desiderava
acquisirli al fine di proseguire la penetrazione nel Regno napoletano.
Il disegno venne favorito dal consenso mostrato da Ferdinando
I e dal figlio Alfonso II, duca di Calabria. Sono stati ampiamente
studiati i legami tra il monarca e la famiglia monastica senese.
Scavi archeologici dell'area
dell'ex cattedrale di S. Erasmo. Frammento pavimentazione sec.
XVIII
Se le consegne avvennero pacificamente, non altrettanto la presa
di possesso dei beni dipendenti dal cenobio di S. Erasmo si compì
serenamente.
Erano i sintomi di quegli interminabili conflitti tra Castellonesi,
orgogliosi e pronti a svincolarsi dagli obblighi secolari, ed
il nuovo Ordine assai contemplativo, restio ad intrecciare un
dialogo con la nuova emergente borghesia.
Nel 1497 non trovandosi modo di convincere gli abitanti a segnalare
e restituire terre, beni e documenti del monastero, i monaci si
appellarono al papa; ed Alessandro VI intervenne con una bolla
di scomunica per gli inadempienti (RdC, 157; 168).
Gli effetti furono immediati: molti si piegarono.
Formia:
chiesa ex cattedrale di S. Erasmo. Anatema ingresso al cenobi
Persino al Capitano ed ai Giudici di Gaeta con lettere inibitoriali
del delegato di Giulio II (l'ultimo abate commendatario del cenobio)
si intimò di non molestare più né l'abate
né i monaci castellonesi (RdC, 163).
La contessa di Fondi Isabella Colonna esentò i religiosi,
i loro inservienti e gli animali da soma dal pagamento della scafa
per il traghettamento del Garigliano (RdC, 173).
Nel frattempo i rapporti con il grande cenobio di Monte Oliveto
in Napoli divennero intensissimi con un interessante scambio culturale,
che orientava il cenobio verso il Regno di Napoli sia oramai inserito
in quella realtà e proprio nella specifica provincia monastica
sia perla presenza di abati di quel territorio, con il naturale
riverbero di politiche ed interessi abbaziali maggiormente prossimi
alle complessità economico-politiche del Regno.
La
chiesa.
La
chiesa, nella sua forma attuale, venne rinnovata pressoché
totalmente tra il 1538 ed il 1560, come ricorda l'iscrizione incisa
sull'architrave dell'attigua cappella di S. Probo.
L'incarico della riedificazione fu affidato, come risulta dalle
Historiae Olivetanae dell'abate perugino S. Lancellotti, ai monaci
olivetani Teofilo d'Aversa e Placido dell'Aquila, i quali dovettero
affrontare complessi problemi strutturali e statici a ragione
della particolare natura del terreno e del luogo.
L'edificio, nel suo insieme, rispecchia una architettura di gusto
tardo rinascimentale.
L'equilibrio delle proporzioni in pianta e in alzato, la rendono
opera unitaria e frutto di un progetto organico. La disposizione
planimetrica di tipo basilicale a tre navate prive di transetto,
pur se risolta secondo i consueti schemi dell'architettura del
tardo Cinquecento, presenta già taluni elementi che troveranno
il loro punto di forza nelle istanze riformistiche sancite dal
Concilio tridentino.
Il profondo presbiterio con coro rettilineo e la presenza di ingressi
minori, in corrispondenza delle navate laterali, riaffermano il
desiderio di conferire alla direzione longitudinale una certa
predilezione.
La facciata, priva di rilievi, ma che sicuramente doveva contenere
salienti che ne spartivano la superficie in tre zone corrispondenti
alle navate, preceduta da un atrio porticato, che ricorda il paradisus
delle basiliche paleocristiane, scandito dal ritmo delle arcate
a tutto sesto, voltate su colonne di spoglio inserite in pilastri
in muratura, è risolta con molta semplicità. Presenta
al centro un unico finestrone rettangolare che rischiara l'interno,
facendo risaltare gli elementi aggettanti della costruzione in
una penombra ricca di suggestione, e si conclude in alto con un
timpano triangolare sottolineato da una classica cornice modanata
fortemente aggettante.
Il portale di centro, di struttura severa, si mostra di un gusto
prettamente rinascimentale nella cornice a gola che caratterizza
i piedritti e l'architrave monolitico, e così l'uso di
elementi classici dell'interno come la cornice a gola dritta,
su cui sono impostate le volte e gli arconi di scarico della navata
di centro.
L'interno a tre navate, presenta la fusione della basilica paleocristiana
a navata unica, con le successive modificazioni tardorinascimentali.
Le campate sono coperte con volte a crociera e divise da pilastri
compositi, su cui scaricano le membrature delle volte della navata
centrale e gli archi trasversali longitudinali, rispettivamente
a tutto sesto e a sesto rialzato, e gli archi minori che sostengono
le strutture delle navatelle.
Alle cinque ampie campate rettangolari della navata centrale,
corrispondono altrettante campate nelle navate minori, anch'esse
rettangolari, ma con orientamento ortogonale rispetto alle prime.
L'interno, pertanto, si presenta articolato in una successione
di spazi definiti dal chiaro ordine delle strutture, poste tra
loro in perfetto accordo ed equilibrio ed, al tempo stesso, mostra
l'essenziale linearità di una struttura che non ha subito
l'imposizione delle macchinosità barocche; cosicché
l'interno appare disegnato con sobrietà ed eleganza. Non
manca, tuttavia, qualche reminiscenza dell'arredo settecentesco,
come la monumentale lastra funeraria dei duchi di Marzano (1698),
sul primo pilastro a destra dell'ingresso. Il marmo policromo,
il ritratto imparruccato racchiuso in un clipeo modanato, il linguaggio
pomposo della dedica, sono tutto ciò che rimane dell'epoca
in cui vissero i due nobili.
Un poco più oltre vi è ancora la lapide che ricorda
un altro nome illustre nativo di Castellone: Lucia Merola, zia
del pittore Pasquale Mattej. La si può vedere sulla parete
nord della navata destra, dove è pure un dipinto di anonimo
del XVIII secolo che raffigura il beato Bernardo Tolomei, attorniato
da abati olivetani e santi protettori della Congregazione olivetana.
Nella navatella sinistra, tra il secondo ed il terzo pilastro,
in corrispondenza dell'accesso alla cappella carolingia, delle
membrature architettoniche monocrome, residue della decorazione
settecentesca della chiesa, con un gioco prospettico di pilastri,
volte ed archi, stanno ad indicare l'accesso al luogo della depositio
del martire Erasmo.
Il
saggio di R. Frecentese "Il monachesimo benedettino ed il
cenobio di S. Erasmo"
è
tratto da "Storia di Formia illustrata (a cura di M. D'Onofrio).
Vol. II: Età medievale". Sellino editore, Pratola
sannita, 2000, pp.135-156.
Il
saggio di A.G. Miele su "La chiesa" è tratto
da da "Guida storico-archeologica della chiesa di S. Erasmo",
a cura dell'Équipe di studi storico-archivistico-archeologici
- Formia. Caramanica, Marina di Minturno, 1995, pp.25-26.
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