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•La chiesa di S. Erasmo: itinerario archeologico
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•Bibliografia su Formia nell'età medievale

•Roberto Frecentese: pubblicazioni


Nel sito gli studiosi possono trovare informazioni sulla cittą di Formia in etą medievale, dal raccordo con il tardo antico al termine del basso Medieovo.

I saggi sono condensati dalle pubblicazioni di Roberto frecentese riportate in calce.

Senza alcuna pretesa di esaustivitą, vengono ripercorsi alcuni tratti della storia formiana.

La bibliografia riporta i contributi pił significativi assieme ad alcuni studi di carattere pił generale, utili come punti di riferimento.


 

Il monachesimo benedettino ed il cenobio di S. Erasmo

Durante l'età ducale gaetana della dinastia indigena dei Docibile (IX-XII secolo) il distretto dell'antica Formia si trovò diviso nei due centri abitati di Mola e Castellone. I rapporti tra la famiglia ducale e l'abbazia di Montecassino, principale fonte di irradiazione del monachesimo in terra gaetana, furono intensi. Ma ancor prima del IX secolo il monachesimo benedettino aveva avuto modo di far sentire la forza dell'ideale monastico almeno dal VI secolo. L'obbedienza cassinese non risolveva in sè l'intera esperienza cenobitica benedettina.
Nel 552 Mabillon ricorda la costruzione del monastero di S. Magno ad opera di s. Onorato, identificando quell'edificio con il cenobio menzionato nei "Dialoghi" di Gregorio Magno. Il cenobio ne esaltava l'importanza e la centralità a causa della fama dovuta alle grandi ricchezze lì accumulate.
Un altro centro monastico è rammentato da Gregorio Magno nell'isola Eumorfiana nel 591; ma è incerta l'identificazione con Ponza né è tramandato il tipo di osservanza. La lettera di papa Leone III dell'812 inviata a Carlo Magno riferisce di alcuni monaci dimoranti nell'isola di Ponza senza, però, riferire il tipo di osservanza.
Se l'identificazione dei due centri non appare certa è comunque interessante notare che il monachesimo non fu assente dal territorio dell'antico Formianum.
Infatti le prime certe testimonianze di cenobi benedettini nell'area del ducato di Gaeta prima del Mille riguardano (tra parentesi la data del primo documento conservato):
- S. Saba in Sperlonga (890);
- S. Michele Arcangelo in Planciano in Gaeta (930). La chiesa è menzionata già nell'899;
- S. Benedetto in Gaeta (943).La chiesa è attestata nell'835;
- S. Maria detto "delle monache" in Gaeta (954);
- SS. Teodoro e Martino in Gaeta (957). La chiesa risale al 906;
- S. Giovanni Battista della Porta in Gaeta (963);
- S. Magno in Sperlonga (963);
- S. Nicola in Zannone (976);
- S. Michele Arcangelo di monte Altino in Maranola (978). Nell'830 (?) viene ricordato con la dizione oratorio;
- S. Magno in Fondi (979).

Cosicché S. Benedetto, S. Michele arcangelo in Planciano in Gaeta e S. Saba in Sperlonga avevano comunità monastiche prima del ritorno dei monaci cassinesi nel cenobio madre, ricostruito sotto l'abate Giovanni I (913-834) e suoi successori. Nel 949 Aligerno (949-986) aveva ricondotto i monaci a Montecassino dopo la permanenza capuana, che era seguita alla distruzione saracena ed all'uccisione dell'abate Bertario.
Come si può notare la presenza monastica benedettina nel territorio ducale tra IX e X secolo è collocata tra i centri di Fondi-Sperlonga e Gaeta con le appendici dell'eremo di S. Michele Arcangelo nel territorio di Maranola e l'incerta osservanza di S. Nicola di Zannone.
In realtà lo sviluppo del monachesimo nel ducato di Gaeta passa attraverso due fasi, così come sottolineato da M. Dell'Omo.
Una prima fase, scandita da due periodi strettamente connessi, tra IX secolo fino alla soglia dell'XI secolo; la seconda tra XI e XII secolo.
Nel primo periodo della prima fase (sec. IX) Gaeta, pur sotto l'autorità nominale bizantina, tende a creare un'autonomia politica. Iniziano a svilupparsi le fondazioni monastiche. Nel secondo periodo (sec. X fino al limitare dell'XI) il potere ducale di Gaeta si erge a struttura autonoma sia rispetto al dominio imperiale sia nei confronti del vescovato. La famiglia ducale tende a favorire l'impianto dei centri monastici, inserendoli nel tessuto cittadino. Si assiste come logica conseguenza all'incremento delle donazioni a favore delle fondazioni cenobitiche.
L'interesse filo monastico dei Docibile viene contrassegnato da interessi economici e per la precisa consapevolezza di raggiunta identità politica. Anche nei confronti dell'episcopato si assiste all'esplicitazione di forme di indipendenza rispetto alla famiglia ducale, pur essendo il vescovo proveniente dalla medesima famiglia dei Docibile. Ma è vero anche il contrario, e cioè che il vescovo, consapevole della debolezza della famiglia dinastica e del proprio ruolo ecclesiale, tende a distaccarsi dalla struttura ducale.
La seconda fase (secc. XI-XII) coincide con lo splendore dell'abbazia di Montecassino e del suo rafforzamento sul territorio. La chiesa di S. Erasmo rientra tra le molte donazioni consegnate ai monaci cassinesi. Queste chiese e cenobi erano in mano a laici anche con trasmissione ereditaria di tali beni. Nel caso di S. Erasmo si era di fronte ad un giuspatronato della famiglia dei Docibile.
Le donazioni avvenivano in coincidenza con l'espansionismo normanno nel ducato di Gaeta, che seguiva quello sul principato di Capua con Riccardo I ed il figlio Giordano I. Il culmine di quest'opera veniva raggiunto con l'annessione del ducato di Gaeta. L'ondata normanna spingeva alle donazioni per evitare che i beni ecclesiastici cadessero nelle mani dei nuovi dominatori. È conosciuta la vicinanza tra Benedettini e Normanni e come a ciò, anche se attraverso complesse vicende, si aggiungeva un rinnovato interesse del Papato per Gaeta. Nella seconda metà del XII secolo numerosi privilegi pontifici venivano concessi ai centri di vita monastica.
Le numerose donazioni erano la spia del prestigio economico-politico raggiunto dall'abbazia di Montecassino, che è tuttavia comprensibile soltanto se unito al prestigio, forse ancor più significativo, raggiunto sul piano spirituale.
È stato studiato il ruolo dei monasteri più grandi nei centri urbani ed il loro influsso sul territorio circostante. Di notevole interesse paiono le conclusioni che attesterebbero la capacità degli abati di entrare nelle scelte politiche ben oltre i limiti della propria circoscrizione.
Tra XIII e XIV secolo il monachesimo benedettino cassinese attraversa una crisi piuttosto profonda soprattutto nelle città, sulla quale si innestavano nuove esigenze che venivano rappresentate da obbedienze dei rami benedettini maggiormente capaci di rappresentare le nuove spinte dell'evangelizzazione e di riforma ecclesiale.
Trai monasteri benedettini di rilievo va menzionato il complesso monumentale di S. Erasmo.
Il cenobio di S. Erasmo veniva ricordato come monastero retto dall'abate Stefano soltanto nel 1016, secondo il Codex Diplomaticus Cajetanus (= C.D.C., I, CXXXII).
Ma a parte quest'indicazione un vero e proprio insediamento benedettino cassinese si ebbe soltanto per opera dell'abate Desiderio. La donazione di Giordano I della chiesa di S. Erasmo a Montecassino del 1058 è stata dimostrata un falso.
L'acquisizione era comunque certa già nel 1066 con l'iscrizione del nome della chiesa ex cattedrale formiana nel portale bronzeo dell'abbazia di Montecassino. Nell'XI secolo si era assistito nel ducato di Gaeta al rafforzamento della presenza cassinese soprattutto nelle chiese racchiuse nella cinta urbica di Gaeta e dell'ex cattedrale di Formia. In questo modo veniva assicurato il controllo sulle principali reti di comunicazione stradale, marittima e fluviale, il rapporto con i maggiori centri demici di Fondi, Gaeta e Castellone e la collocazione dei cenobi su alcuni dei punti dominanti il territorio (S. Michele Arcangelo nel Castello a Gaeta, S. Michele Arcangelo su monte Altino, S. Erasmo nei pressi dell'arce di Castellone con la grancia di S. Maria la Noce sul monte Caprile).
Questa distribuzione sul territorio consentiva di raccordare diverse esigenze: dal controllo sul territorio, reso vantaggioso dal regime delle esazioni e delle protezioni pontificie, alla sicurezza dello sbocco a mare con il controllo della riva destra del Garigliano, la perimetrazione di strutture economicamente autosufficienti con una invasiva economia sul territorio. Probabilmente lo sviluppo degli insediamenti monastici venne favorito dalle positive relazioni con la famiglia ducale e poi dall'ascesa normanna.
È notoria l'alleanza di papa Gregorio VII con i Normanni, così come buoni rapporti intrattenne l'abate Desiderio (1058-1087), salito al soglio pontificio come successore di Gregorio VII con il nome di Vittore III per un brevissimo pontificato, che precedette il decennio di Urbano II.
Con lo sbocco a mare si otteneva sicurezza nel controllo del traffico, si evitava il pagamento di numerosi dazi. Così con l'acquisto del porto di Suio, si realizzò un passaggio ed approdo indipendente. Con l'accumulo di altri possedimenti il cenobio di S. Erasmo completava ed integrava l'acquisto di beni e castelli lungo l'antica via Ercolanea e lungo il corso del fiume. Nel 1087 al termine del suo pontificato, Vittore III emanò un provvedimento con il quale minacciava di anatema l'alienazione dei beni acquisiti dal cenobio senza il preventivo assenso dell'abate.

Arcidiocesi di Gaeta. Museo diocesano: iconografia da Exultet.


Provenendo dal cenobio madre, un gruppo di Benedettini, per attuare il progetto promosso dall'abate cassinese Aligerno, giunse presso il colle di S. Maria la Noce. Fondò un piccolo romitorio, fuori dalle mura formiane, così come prescriveva la consuetudine monastica. La piccola chiesa, risalente nella sua veste architettonica al X secolo circa, non era il vero obiettivo dei Benedettini, quanto un punto d'appoggio per ottenere l'antica sede della ex cattedrale di Formia.
La cessione della chiesa erasmiana, in possesso della famiglia ducale ed affidata ad un gruppo di monaci, non fu immediata.
Il monastero castellonese ottenne tra il 1062 ed il 1066 chiese e terre sul versante marino. E ciò coincideva con il sogno dell'abate Desiderio di aprire per l'abbazia di Montecassino uno sbocco a mare. Proprio in questo breve lasso di tempo si consumò il passaggio di S. Erasmo nelle mani dei Cassinesi. Desiderio entrò in tutti i principali contratti riguardanti il territorio compreso tra Traetto ed il Garigliano, riuscendo a creare un corridoio tra la riva destra (il pantano di Minturno e la terra di Sujo) e la riva sinistra nei lembi terminali del Sessano, al fine di sfruttare la navigabilità del fiume. I documenti del pongono in risalto l'intensa attività dell'abate.
La conferma dell'avvenuta cessione del cenobio erasmiano scaturisce dalla lettura della carta di donazione di due terre all'abate Marino della chiesa di S. Erasmo "in civitate furmiana iam diruta" e "in ordine coenobiali ordinata" (C.D.C., II, CCVI).
Il duca Riccardo I donò a Montecassino numerose concessioni, permute di territori confiscati ai principi longobardi, così come i pontefici confermarono i vasti possedimenti e la giurisdizione del cenobio assieme ad ampi privilegi.
Urbano II (1088-1099) protesse i cenobi dall'ingerenza dei vescovi limitando il potere di questi ultimi all'ordinazione degli abati ed alla consacrazione delle chiese. Nessun vescovo poteva entrare nel territorio del cenobio per ordinare sacerdoti o consacrare senza l'invito dell'abate. Con altrettanta forza proibì l'intervento dei laici nel territorio del monastero. Il papa, già priore di Cluny, aveva concesso all'abate del monastero di Lorenzo di Aversa il privilegio della mitria e dell'anello episcopale.
Un influsso indiretto dell'esperienza cluniacense venne maturato con la particolare devozione per le anime dei defunti, che nel cenobio di S. Erasmo si attestò per lunghissimo tempo. All'anno 1539 viene fatto risalire l'atto di fondazione della Congregazione laicale di S. Probo, detta anche dei suffragi per le anime dei defunti.
In più l'abbazia non solo divenne esente ma venne sottoposta unicamente alla Santa Sede, quasi una sua proprietà e sotto la personale giurisdizione del papa.
Non è un caso che durante il pontificato di Urbano II sulla cattedra episcopale gaetana sedettero alcuni vescovi monaci cassinesi.
Il pontefice fu conciliante con i Normanni ed intrattenne buoni rapporti con il principe di Capua Giordano I, tanto che consacrò Guitmondo vescovo di Aversa, persona gradita al principe capuano.
Trainato da quello cassinese, il monastero formiano accelerò la propria crescita. I monaci crescevano in numero e gli abati provenivano probabilmente da nobili famiglie, come ricordato per il ricco Gregorio, figlio di Joanni da la Fur... (C.D.C, II, CCXXXII), che promise di farsi monaco, cedendo nel frattempo le sue proprietà.
L'abate castellonese ricevette numerose donazioni e la sua persona era circondata da rispetto tanto da entrare ormai in tutte le controversie che possano riguardare le terre del comprensorio.
Nel 1071 il vescovo di Gaeta Leone IV (1049-1089) presenziò alla consacrazione della chiesa di S. Benedetto a Montecassino, rinnovandosi così un'attenzione particolare della diocesi gaetana con Montecassino.
Nel 1075 Goffredo Ridello, conte di Pontecorvo, (C.D.C., II, CCXLVIIII) e nel 1079 Giovanni, comes di Sujo (C.D.C., II, CCLII), offrono a Desiderio il monastero formiano per la parte loro spettante: probabilmente non si tratta di una vera cessione quanto piuttosto di una formula di conferma dell'operato dei loro predecessori.
Il privilegio di papa Pasquale II (1099-1118) del 1099 sancì la protezione pontificia sul cenobio formiano; quelli di Callisto II (1112-1124) del 1122, di Innocenzo II (1130-1143) del 1138-1143, di Anastasio IV (1153-1154) del 1153-1154, di Alessandro III (1159-1181) del 1159, di Clemente III (1188-1191) del 1188 confermarono i precedenti beni, assegnando l'intero Castellone, liberandolo dalle esazioni vescovili e laicali, concedendo facoltà d'ordinazione dei monaci, d'elezione dell'abate e di ingresso dei vescovi invitati nel cenobio per tenere solenni liturgie e sermoni (RdC, 4).
Ma la pacifica dipendenza pontificia non fu così lineare. Infatti con Adriano IV (1154-1159) nel 1159 (C.D.C., II, CCCXLV) e poi con Alessandro III (1159-1181) nel 1170 (C.D.C., II, CCCLI) il cenobio sembrò tornare per breve tempo alla dipendenza diocesana in possesso del vescovo.
Il Lancellotti sostiene che il possesso del Castellone, così come configurato nel privilegio del 1143, fu una vera e propria signoria spirituale e temporale.
Il cenobio veniva ricordato nel diploma dell'imperatore Lotario III del 1137.
Raggiunto l'acme dell'espansione territoriale e nel momento di maggior rilevanza politica, la famiglia ducale frazionò il ducato gaetano in piccole entità circoscrizionali affidate ai suoi membri, che si ritirarono in castelli dai quali governare la propria porzione. Il fenomeno dell'incastellamento segnò l'inizio della crisi dell'esperienza ducale, crisi che si concretò con il passaggio del titolo ducale nelle mani di Riccardo II dell'Aquila.
Venuto meno il diretto rapporto con il potere centrale, si fecero più pressanti le spinte autonomistiche.
Gli abati castellonesi sollecitarono gli imperatori a prendere il cenobio sotto la loro protezione; la famiglia di Riccardo dell'Aquila si pregiò di donare terre e benefici (RdC, 11).
La dipendenza cassinese di S. Erasmo rifletteva in loco la predominanza sull'intera diocesi di Gaeta dell'abbazia di Montecassino. Per un cinquantennio circa i vescovi di Gaeta appartennero all'Ordine di s. Benedetto.
I passaggi, però, non compromisero la maggiore espansione dei beni del cenobio: i possedimenti giungevano oltre il Garigliano fino a Sessa e Mondragone, includendo il versante dei monti che si estendeva verso Itri.
Tra i privilegi connessi alla funzione di abate figurava il possesso di una corte con giardini denominata volgarmente la corte dell'Abbate, circoscritta nell'area dell'attuale sito della chiesa di S. Teresa di Formia.
L'intervento personale dell'imperatore Federico II spense gli "appetiti " dei baroni, che avevano puntato le loro mire sul tempio e cenobio (RdC, 13).
Nel XII secolo si riversò su Montecassino una rinnovata attenzione dei pontefici, che concessero una serie di privilegi, che, indirettamente, procurarono vantaggio ai cenobi dipendenti dall'abbazia madre.
Tra il XII ed il XIII secolo i beni raggiunsero discrete proporzioni per entità e qualità. Il sistema agricolo appariva variegato e le coltivazioni, pure di varietà pregiate, si sviluppavano nelle diverse forme delle cese, delle possessioni, delle tese, dei pastini in modo che la produzione occupasse tutti i terreni per dimensioni e localizzazioni. Il sistema irriguo e l'impianto delle chiuse garantivano il supporto alla produzione. L'industria di trasformazione dei prodotti agricoli si localizzava nel lembo di terra tra Mola e Gianola.
La riscossione dei tributi e dei canoni periodici, le donazioni sempre più numerose, la cessione delle campagne in enfiteusi movimentavano in positivo le entrate. L'economia era sostanzialmente florida e le attività pubbliche e private parevano passare tra le mani dell'abate, che concedeva il suo assenso e mostrava una discreta capacità imprenditoriale.
Il monastero provvedeva alla miglioria dei beni più lontani (a Mondragone) e sottoscriveva patti che prevedevano la parziale costruzione di case (da intendersi in realtà stanze) a proprio carico (RdC, 32).
Identica preoccupazione era rivolta verso la rete viaria. Strade efficienti ed opportunamente collocate agevolano le comunicazioni e gli spostamenti dei prodotti, cosicché si decideva di aprire anche un segmento che congiungesse la strada pubblica (l'Appia?) con le falde del monte di Piroli (RdC, 38).
I privilegi pontifici furono rinnovati. Si ricordano in particolare le bolle di Innocenzo III (1198-1216) del 1208, di Onorio III (1216-1227) del 1216, di Urbano V (1362-1370) del 1369.
L'ingrandimento del cenobio castellonese comportò nuovi contatti con altre comunità civili e religiose. Il clero ordinario sentì l'influenza dei Benedettini e creò forme di autotutela dei propri interessi, ma quando i conflitti non erano componibili entrò in giuoco la figura del vescovo di Gaeta, al quale le parti si appellavano per un giudizio super partes.
Gli abitanti del Castellone firmarono una carta di concordia con l'abate il 2 maggio 1339, probabilmente per porre fine al contrasto sulla corrispondenza tra diritti e doveri feudali. Nell'intesa si stabiliva il rituale del vassallaggio: il Castellonese doveva la genuflessione, il bacio della mano; l'abate garantiva il suddito con l'osculum secondo la prassi feudale. Ogni alienazione di beni avveniva soltanto "consensu expresso et licentia Abbatis" (I manoscritti, 1).
Buoni permanevano i rapporti con re Roberto, che rispondeva favorevolmente alla supplica rivoltagli nel 1312 da fra Giacomo, abate del Castellone.
Era il periodo, quello dei primi decenni del XIV secolo tra i più favorevoli al cenobio. La capacità economica e la consistenza patrimoniale avevano raggiunto punte di notevole livello se si considera che il monastero di S. Erasmo tra 1308 e 1310 versava alla Reverenda Camera Apostolica sei once d'oro ed alla mensa vescovile della diocesi di Gaeta 7 once d'oro. Appena cinque once erano attribuite al monastero di S. Teodoro di Gaeta.
Questa specifica grandezza economica si traduceva in dominante politica sul territorio.
Le maggiori abbazie erano irradiatrici di cultura, spiritualità e vennero coinvolte o furono promotrici di forti interessi politici; quelle minori con minore complessità di attività erano legate alle situazioni locali e alle strutture urbiche di riferimento e fondavano la loro funzione su un profilo più squisitamente spirituale.
I centri intermedi, come S. Erasmo, avevano una particolare condizione spirituale, ma riuscivano ad assolvere un ruolo spesso non limitato alla località urbana, ma esercitavano un concreto potere politico ed economico extra urbano.
La fedeltà ai reali costò al monastero ed al Castellone: su di essi si scagliò la violenza di Nicolò Caetani, conte di Fondi, per punirli dell'alleanza con la regina Giovanna I, contro la quale aveva mosso guerra tra il 1346 ed il 1347.
Il periodo non è tra i più facili. Appena nel 1341 si era conclusa la lunga diatriba per l'elezione del nuovo abate (RdC, 62-73).
Suppliche, contestazioni, appelli dei pretendenti erano giunti sino alla Curia spostatasi ad Avignone per ottenere la conferma papale.
La spuntò Giovanni di Gregorio Botulante: sotto il suo abbaziato cominciò un lungo periodo di stabilità (1341-1369).
Al tempo della permanenza del pontefice ad Avignone e dello scisma d'Occidente si indebolì la struttura di governo ecclesiastica locale, tanto che si aprirono ampi spazi di penetrazione da parte di forze socio-economiche laicali che aspiravano ad esercitare il loro controllo su prebende, benefici ed in genere sulle proprietà ecclesiastiche.
Rinnovò le enfiteusi già concesse in passato per attrarre al monastero i contadini onde assicurare certezza di entrate. Favorì la costruzione di nuovi montani ed organizzò un adeguato sistema di molini ad acqua a Mola per ammodernare la rete di trasformazione dei prodotti agricoli.
Sotto l'episcopato di Ruggieri Frezza da Ravello le vendite e la commutazione dei beni portavano il consenso congiunto del vescovo e dell'abate.
L'abate Giovanni nel 1383 venne nominato Collettore delle diocesi vicine dalla Curia romana al fine di frenare le pretese dei "fautori dell'antipapa Clemente VII" (RdC, 102).
Il tempo guastò i rapporti con gli abitanti del Castellone, oramai possesso dei Caetani, ed affiorarono contrasti tra i monaci del cenobio di S. Erasmo. Un infelice episodio spinse papa Martino V ad imporre all'arciprete della Cattedrale di Gaeta la risoluzione della delicata vicenda del priorato della chiesa di S. Nicolò di Spigno, attribuito ad un religioso spacciatosi per monaco del monastero castellonese (RdC, 115).
La bolla pontificia rimise in discussione le nomine degli abati e ristabilì la situazione quo ante. A Castellone ritornò così il vecchio abate per riportare un po' d'ordine tra i monaci.
L'esosità dei vincoli trascinò la popolazione a continue rivalse e la risposta dei Benedettini non si fece attendere.
Scese in campo la regina Giovanna II, che, memore dell'aiuto concesso alla sua ava Giovanna I, fece sì che l'abate Giovanni Gattola entrasse nel pieno possesso dei diritti usurpati dai Castellonesi (RdC, 120).
La lite, però, ebbe un seguito. L'anno seguente, infatti, di fronte al regio consigliere Goffredo di Gaeta, a ciò espressamente delegato, comparvero i contendenti (RdC, 121).
Si entrava in un particolare periodo storico, nel quale le abbazie divennero appetibili a tal punto che si instaurò in molte di esse economicamente prospere il regime della commenda.
Il cardinale Ludovico Trevisan, primo abate commendatario dell'abbazia di Montecassino, si recò a Mola il 23 giugno 1456 per conferire il beneficio di S. Cataldo, fuori il castello di S. Elia, impegnandosi a favore del proprio cenobio anche lontano da esso.
L'abate di S. Erasmo Giovanni Gattola venne promosso vescovo di Venafro l'anno 1468 e l'abbazia venne affidata in commenda (RdC, 140).
Nella seconda metà del XV secolo le più prestigiose e ricche commende venivano riservate agli ecclesiastici e ai cardinali dell'entourage pontificio, tra i quali spiccava Giuliano della Rovere.
Tra le abbazie affidate in commenda bisogna aggiungere quelle di S. Magno, S. Angelo in Planciano, S. Maria di Ponza che traslato sulla terra ferma dal 1414 era implantata a Mola.
Nel XIII secolo proprio S. Angelo in Planciano era decaduto e si trovò aggregato a S. Maria di Ponza, un cenobio di osservanza cistercense, che, a sua volta, sotto Onorio II, dipese dall'abbazia di Fossanova.
Nel 1472 fino alla cessione del cenobio la commenda di S. Erasmo passò nelle mani proprio del cardinal Giuliano della Rovere, nipote di Sisto IV, e futuro papa con il nome di Giulio II (RdC, 144). Il cardinale la governò tramite procuratori, tra i quali si ricordano Costanzo de Urbe, Nicola Sacco di S. Nucito, Gregorio de Senis.
La commenda, oltre che effetti positivi, provocò senz'altro danni ai cenobi. Tra questi occorre citare l'assenza dei superiori abati commendatari, per cui nel cenobio si assisteva ad un'amministrazione negligente che invece di conservare le risorse le scremava, alla mancanza di disciplina tra i monaci ed alla disaffezione dei laici, ricadenti nella giurisdizione, verso il monastero.
Cosicché aumentava la resistenza al pagamento delle rendite dovute al cenobio e le nuove donazioni venivano meno. Infatti questo sistema diveniva virtuoso a patto che gli abati commendatari mostrassero sensibilità verso le problematiche economiche.
Nel 1474 Sisto IV (1471-1484) accordò al cenobio un nuovo privilegio.
L'interesse per l'abbazia formiana da parte della Congregazione di Monte Oliveto e l'offerta di una pensione annua di 334 ducati d'oro spinsero il cardinale commendatario, vescovo d'Ostia e titolare di S. Pietro in Vincoli, a cedere la badia alla Congregazione benedettina di Monte Oliveto nel 1490 (RdC, 154).
Papa Innocenzo VIII (1484-1492) acconsentì con propria bolla; e ugualmente il re Ferdinando con l'interessamento del figlio Alfonso II, stilò il diploma reale di assenso. Era il 12 dicembre 1491 (Bolle, ff. 34r-45r).

Formia: via F. Rubino. Stemma di Monte Oliveto Maggiore


Gli Olivetani presero possesso materiale l'anno successivo (RdC, 155); nel gennaio del 1493 elessero il loro primo abate: fra Tommaso di Brabanza.
Stesso destino ebbe il cenobio di S. Magno di Fondi, collocato anch'esso sull'Appia, che, contrariamente a quello di S. Erasmo non aveva raggiunto una propria autonomia. La Congregazione benedettina di S. Giustina in Montecassino aveva affidato in commenda quel monastero al cardinal Giordano Caetani.
Nel 1492 si ebbe la cessione di S. Magno. Giordano Gaetani, arcivescovo di Capua dal 1447, abate commendatario dal 1469, trasferì il monastero agli Olivetani in cambio di undici ducati annui di pensione. La bolla venne stilata da Alessandro VI.
I due cenobi, posizionati lungo l'Appia tra Roma e Napoli, erano entrati nelle mire dell'Ordine di Monte Oliveto Maggiore che desiderava acquisirli al fine di proseguire la penetrazione nel Regno napoletano. Il disegno venne favorito dal consenso mostrato da Ferdinando I e dal figlio Alfonso II, duca di Calabria. Sono stati ampiamente studiati i legami tra il monarca e la famiglia monastica senese.

 

Scavi archeologici dell'area dell'ex cattedrale di S. Erasmo. Frammento pavimentazione sec. XVIII


Se le consegne avvennero pacificamente, non altrettanto la presa di possesso dei beni dipendenti dal cenobio di S. Erasmo si compì serenamente.
Erano i sintomi di quegli interminabili conflitti tra Castellonesi, orgogliosi e pronti a svincolarsi dagli obblighi secolari, ed il nuovo Ordine assai contemplativo, restio ad intrecciare un dialogo con la nuova emergente borghesia.
Nel 1497 non trovandosi modo di convincere gli abitanti a segnalare e restituire terre, beni e documenti del monastero, i monaci si appellarono al papa; ed Alessandro VI intervenne con una bolla di scomunica per gli inadempienti (RdC, 157; 168).
Gli effetti furono immediati: molti si piegarono.

Formia: chiesa ex cattedrale di S. Erasmo. Anatema ingresso al cenobi


Persino al Capitano ed ai Giudici di Gaeta con lettere inibitoriali del delegato di Giulio II (l'ultimo abate commendatario del cenobio) si intimò di non molestare più né l'abate né i monaci castellonesi (RdC, 163).
La contessa di Fondi Isabella Colonna esentò i religiosi, i loro inservienti e gli animali da soma dal pagamento della scafa per il traghettamento del Garigliano (RdC, 173).
Nel frattempo i rapporti con il grande cenobio di Monte Oliveto in Napoli divennero intensissimi con un interessante scambio culturale, che orientava il cenobio verso il Regno di Napoli sia oramai inserito in quella realtà e proprio nella specifica provincia monastica sia perla presenza di abati di quel territorio, con il naturale riverbero di politiche ed interessi abbaziali maggiormente prossimi alle complessità economico-politiche del Regno.

 

 

La chiesa.

La chiesa, nella sua forma attuale, venne rinnovata pressoché totalmente tra il 1538 ed il 1560, come ricorda l'iscrizione incisa sull'architrave dell'attigua cappella di S. Probo.
L'incarico della riedificazione fu affidato, come risulta dalle Historiae Olivetanae dell'abate perugino S. Lancellotti, ai monaci olivetani Teofilo d'Aversa e Placido dell'Aquila, i quali dovettero affrontare complessi problemi strutturali e statici a ragione della particolare natura del terreno e del luogo.
L'edificio, nel suo insieme, rispecchia una architettura di gusto tardo rinascimentale.
L'equilibrio delle proporzioni in pianta e in alzato, la rendono opera unitaria e frutto di un progetto organico. La disposizione planimetrica di tipo basilicale a tre navate prive di transetto, pur se risolta secondo i consueti schemi dell'architettura del tardo Cinquecento, presenta già taluni elementi che troveranno il loro punto di forza nelle istanze riformistiche sancite dal Concilio tridentino.
Il profondo presbiterio con coro rettilineo e la presenza di ingressi minori, in corrispondenza delle navate laterali, riaffermano il desiderio di conferire alla direzione longitudinale una certa predilezione.
La facciata, priva di rilievi, ma che sicuramente doveva contenere salienti che ne spartivano la superficie in tre zone corrispondenti alle navate, preceduta da un atrio porticato, che ricorda il paradisus delle basiliche paleocristiane, scandito dal ritmo delle arcate a tutto sesto, voltate su colonne di spoglio inserite in pilastri in muratura, è risolta con molta semplicità. Presenta al centro un unico finestrone rettangolare che rischiara l'interno, facendo risaltare gli elementi aggettanti della costruzione in una penombra ricca di suggestione, e si conclude in alto con un timpano triangolare sottolineato da una classica cornice modanata fortemente aggettante.
Il portale di centro, di struttura severa, si mostra di un gusto prettamente rinascimentale nella cornice a gola che caratterizza i piedritti e l'architrave monolitico, e così l'uso di elementi classici dell'interno come la cornice a gola dritta, su cui sono impostate le volte e gli arconi di scarico della navata di centro.
L'interno a tre navate, presenta la fusione della basilica paleocristiana a navata unica, con le successive modificazioni tardorinascimentali. Le campate sono coperte con volte a crociera e divise da pilastri compositi, su cui scaricano le membrature delle volte della navata centrale e gli archi trasversali longitudinali, rispettivamente a tutto sesto e a sesto rialzato, e gli archi minori che sostengono le strutture delle navatelle.
Alle cinque ampie campate rettangolari della navata centrale, corrispondono altrettante campate nelle navate minori, anch'esse rettangolari, ma con orientamento ortogonale rispetto alle prime.
L'interno, pertanto, si presenta articolato in una successione di spazi definiti dal chiaro ordine delle strutture, poste tra loro in perfetto accordo ed equilibrio ed, al tempo stesso, mostra l'essenziale linearità di una struttura che non ha subito l'imposizione delle macchinosità barocche; cosicché l'interno appare disegnato con sobrietà ed eleganza. Non manca, tuttavia, qualche reminiscenza dell'arredo settecentesco, come la monumentale lastra funeraria dei duchi di Marzano (1698), sul primo pilastro a destra dell'ingresso. Il marmo policromo, il ritratto imparruccato racchiuso in un clipeo modanato, il linguaggio pomposo della dedica, sono tutto ciò che rimane dell'epoca in cui vissero i due nobili.
Un poco più oltre vi è ancora la lapide che ricorda un altro nome illustre nativo di Castellone: Lucia Merola, zia del pittore Pasquale Mattej. La si può vedere sulla parete nord della navata destra, dove è pure un dipinto di anonimo del XVIII secolo che raffigura il beato Bernardo Tolomei, attorniato da abati olivetani e santi protettori della Congregazione olivetana.
Nella navatella sinistra, tra il secondo ed il terzo pilastro, in corrispondenza dell'accesso alla cappella carolingia, delle membrature architettoniche monocrome, residue della decorazione settecentesca della chiesa, con un gioco prospettico di pilastri, volte ed archi, stanno ad indicare l'accesso al luogo della depositio del martire Erasmo.

Il saggio di R. Frecentese "Il monachesimo benedettino ed il cenobio di S. Erasmo" è tratto da "Storia di Formia illustrata (a cura di M. D'Onofrio). Vol. II: Età medievale". Sellino editore, Pratola sannita, 2000, pp.135-156.

Il saggio di A.G. Miele su "La chiesa" è tratto da da "Guida storico-archeologica della chiesa di S. Erasmo", a cura dell'Équipe di studi storico-archivistico-archeologici - Formia. Caramanica, Marina di Minturno, 1995, pp.25-26.