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•Bibliografia su Formia nell'età medievale

•Roberto Frecentese: pubblicazioni


Nel sito gli studiosi possono trovare informazioni sulla cittą di Formia in etą medievale, dal raccordo con il tardo antico al termine del basso Medieovo.

I saggi sono condensati dalle pubblicazioni di Roberto Frecentese riportate in calce.

Senza alcuna pretesa di esaustivitą, vengono ripercorsi alcuni tratti della storia formiana.

La bibliografia riporta i contributi pił significativi assieme ad alcuni studi di carattere pił generale, utili come punti di riferimento.


 

I borghi: territorio ed insediamenti produttivi

Tra X e XI secolo gli insediamenti originati dalla frantumazione della città formiana tendono ad una progressiva stabilizzazione.
Agli originari nuclei, formatisi probabilmente durante lo spostamento dell'episcopato in Gaeta, si sostituiscono e si sovrappongono strutture meglio qualificate sul piano urbanistico.
Purtroppo per il periodo antecedente il X secolo le fonti documentarie sia archivistiche che archeologiche non permettono, allo stato attuale delle ricerche, di delineare con precisione la struttura dei centri abitati, così come manca una descrizione complessiva del territorio e della sua configurazione.
Soltanto a partire dal X-XI secolo le informazioni, pur frammentarie e senz'altro ancora di piccola consistenza, offrono tuttavia qualche ulteriore elemento di analisi.
Il nucleo urbico di Mola si collocava su un diverticolo della via Appia, parallelo alla linea di costa per ricongiungersi nella parte terminale del percorso alla strada consolare all'altezza del ponte romano sito sul fiumicello "friziolo" o "frigido", l'attuale rio Fresco. Questo nuovo collegamento appariva funzionale all'attività orientata alla sopravvivenza del nucleo demico. Dal X secolo circa in poi costituiva la direttrice di sviluppo edilizio, grazie alla quale si avviò il processo di formazione di un vero e proprio borgo.
Castellone per la sua peculiare posizione dominante veniva cinto di mura, successivamente fortificate. Il suo sviluppo appariva legato alle vicende del complesso monumentale di S. Erasmo, che, dopo l'acquisizione della famiglia dei Docibile, passava nelle mani dei Benedettini cassinesi poco oltre la metà dell'XI secolo.
Il nuovo propulsivo slancio di recupero veniva guidato dai monaci, che permettevano al nucleo abitato uno sviluppo dinamico con l'effetto di accentuare il processo di identificazione demica. Se questo aveva positivi effetti sull'organizzazione socio-economica, pur tuttavia alimentò in negativo il senso di distacco rispetto all'altro nucleo di Mola.
I monaci portavano con loro l'esperienza maturata nel recupero e riorganizzazione del territorio di S. Benedetto, promossi dall'abate Aligerno e poi rimodulati dall'abate Desiderio. Le cognizioni si tramutavano nella predisposizione di un modello di organizzazione sociale ed economica applicata a Castellone. L'economia fondiaria veniva sorretta dalla laboriosità di una popolazione dedita all'attività rurale, organizzata sin dai tempi dell'inclusione delle terre formiane nel Patrimonium S. Petri. Difatti una masseria detta di S. Erasmo è ricordata nell'845 dal Codex Diplomaticus Cajetanus (= C.D.C., I, VII), una domusculta è attestata nel 906 (C.D.C., I, XIX) ed un'altra nei pressi del fiumicello frigido l'anno 1120 (C.D.C., II, CCXCV).
I due "borghi" cristallizzarono così nel tempo la loro specificità: Mola nell'attività economica industriale di trasformazione dei prodotti agricoli e marittima di trasporto e collegamento con Gaeta; Castellone nella produzione agricola e nella gestione della proprietà fondiaria, dapprima con i Benedettini, in seguito con il concorso della nuova laica borghesia imprenditrice tra XV e XVI secolo.


Castellone e Mola.

Leone Ostiense nell'880 definiva la zona orientale costiera di Formia "ad Molas".
Un documento del Codex ricorda un servo affrancato dalla schiavitù da Docibile I nel 906 proveniente proprio da Mola (C.D.C., I, XIX).
G. Gattola attribuiva il nome "verosimilmente dalle molte mole ovvero macine che quivi erano per l'abbondanza di acque". Acqua preziosa e fluente per quantità se il curatore degli Acta Sanctorum annotava "Nunc Molae nomen factum loco à frequentia Molarum, quas à vicinis collibus defluentes, cum gratissimo strepitu, aquae circumagunt". L'acqua e la particolare collocazione del sito si prestavano all'innesto di proficue attività.
Nel X secolo con il progressivo incremento delle macine ad acqua Mola era divenuta punto nodale dell'industria di trasformazione del grano e delle olive, elementi cardine dell'economia rurale alto medievale.
Mola in questo periodo si sviluppava attorno alla chiesa di S. Lorenzo con una fisionomia abbastanza delineata (C.D.C., II, CCCIII). La crescita progressiva dell'abitato trova riscontro in alcuni documenti del Codex.
Nel 1120 il nucleo urbico veniva definito Burgum mole (C.D.C., II, CCXCV) nel senso non tanto di struttura fortificata (occorrerà attendere ancora qualche tempo per vedervi una precisa edificazione difensiva), quanto luogo idoneo per gli scambi commerciali. Il borgo accoglieva il flusso immigratorio dai casali d'oltre Garigliano, fenomeno periodico e ricorrente, così come si evince dai cognomi contenuti nei manoscritti del Codex, della Rubrica delle Carte (= RdC), nei seriori registri parrocchiali (primi anni sec. XVI) e nella platea della chiesa di S. Lorenzo.

Mola: F. Hackert, Mola di Gaeta (1790). Dalla serie: Porti delle Due Sicilie. Palazzo reale di Caserta.


Da quanto è dato conoscere Mola viveva soprattutto del frutto dei vigneti, delle terre seminative, degli orti; i caseggiati si estendevano lungo l'asse che, partendo dai resti dell'acquedotto romano, giungeva sino al mare. È la cosiddetta zona dei monumenti, citata due volte nel Codex.
Nel testamento di Gregorio, redatto nel 1024 (C.D.C., I, CXLIII), si affidava la costruzione di un mulino nel borgo di Mola. Si è a conoscenza dell'esistenza di un mulino detto della Palude (o sotto la Palude) (C.D.C., I, XXXVI) di proprietà della chiesa di S. Erasmo. Ciò non deve meravigliare perché è norma comune che i Castellonesi abbiano da sempre posseduto proprietà a Mola e non viceversa. Codex e Rubrica delle Carte trattano estesamente di mulini e montani, la gran parte dei quali si trovava per l'appunto nel territorio di Mola.
Intorno al IX secolo, forse poco più tardi, a causa del degrado, causato dall'abbandono forzoso di una larga fetta del territorio e per la particolare posizione geografica, si erano creati impaludamenti extra burgum in prossimità degli sbocchi dei corsi d'acqua verso il mare.
Si potrebbe pensare che comunque tale situazione non ebbe carattere permanente. Con l'incremento dell'attività produttiva i duchi gaetani avevano progettato un'opera di bonifica in coincidenza con il ripristino del porto ed il riattamento delle mura di Castellone ed abbiano promosso lo sviluppo del tessuto urbico di Mola, al fine di rendere più remunerativa l'attività di molini e montani con un trasporto diretto via mare verso Gaeta. Il trasporto marittimo si rivelava più adatto per la precaria condizione dei collegamenti terrestri e probabilmente per ragioni di squisita convenienza economica.
La capitale ducale appariva lo sbocco naturale delle lavorazioni approntate a Mola sia finalizzate al consumo interno sia all'immissione nel mercato marittimo verso altri scali del Mediterraneo. Nel 1306 nel nucleo centrale del borgo è attestata l'esistenza di un ospedale (C.D.C., III (I), CCCCXXX).
Non si conosce molto altro su Mola tra IX e XIV secolo.
Il Castellone, sorto sul punto più eminente dell'acropoli romana, aveva tutt'intorno robuste mura, al di sotto delle quali si stagliava una cinta in opera poligonale.
Da sempre munito di difese naturali (dislivelli) ed artificiali (mura), la sua popolazione aveva scelto, forse proprio per questo motivo, di risiedere nella zona alta, panoramica per l'avvistamento del pericolo e lontana quanto basta dalle grandi vie di comunicazione (l'Appia). La dizione Castellone non è nuova nel territorio aurunco. Un sito detto Castello è nel borgo di Gaeta; un Castellone è tra il Garigliano e Sessa Aurunca (1066).
Le mura di Castellone erano state riparate più volte. Nel 944 il duca Docibile II finanziò l'opera non appena si erano sciolte le tensioni sul ducato (C.D.C., I, XXXVI).
L'attivo impegno dei Benedettini si accentuò dall'XI secolo in poi. Il nucleo edilizio si denominò Castellone, cioè a dire castello irregolare con più ampie dimensioni.
Le cinte murarie delle città meridionali avevano il compito di circoscrivere i luoghi abitati in sicuri rifugi, peraltro già utilizzati sin dai tempi delle incursioni barbariche.
G. Gattola ha sostenuto che Castellone abbia avuto origine nel XIV secolo, avendo trovato una notizia datata 1312 presso la Real Zecca, nella quale si leggeva di un ordine del re Roberto in risposta ad una supplica rivoltagli da fra Giacomo, abate di S. Erasmo. Lo stesso autore rammentava che in una pergamena custodita presso il monastero di S. Angelo in Planciano ricorreva la dicitura "Monjstero di S. Erasmo Castri Castellionj".
Nel Codex la chiesa di S. Erasmo è detta di Castellone per la prima volta nel 1305 (C.D.C., III (I), CCCCXXVIII). Il 1° gennaio 1364 l'itrano Nicola Gallozzi lasciava nel proprio testamento un'offerta pro "pauperibus Castellonis" (C.D.C., III (I), CCCCLII).
La Rubrica delle Carte attesta che il toponimo è ancora più antico. Gregorio Ploja, notaio in Gaeta, predisponeva la copia di una bolla pontificia di Innocenzo II datata 1143 e diretta a "Giovanni abbate del Monastero di S. Erasmo di Castellone" (RdC, 4), riportata pure dal Lancellotti.
A conferma della vetustà del termine nell'anno 1197 si ricorda la "donazione fatta da Riccardo dell'Aquila conte di Fondi al Monastero di S. Erasmo di Castellone, che dicevasi Formia e per esso al di lui abbate Diodato avo del detto Conte" (RdC, 11).
Pertanto Castellone esisteva prima del 1377, anno nel quale Onorato I Caetani, secondo una tradizione accettata ma non documentata, gli avrebbe dato forma turrita. Ma la vera opera di ricostruzione era già avvenuta per impulso dei Benedettini.
Castellone, pur non essendo mai stato definito borgo ma semplicemente terra murata, sembra privo di una struttura amministrativa laica autonoma.
L'agglomerato, sin dalla sua costituzione il nucleo maggiore per numero di abitanti tra quelli nati dalla divisione del territorio formiano, era legato al cenobio di S. Erasmo da una forma di subordinazione feudale attestata dal Lancellotti e ribadita costantemente nel corso dei secoli.
Coloni e fittavoli vivevano nell'845 e nel 919 nella masseria di S. Erasmo. La lavorazione della terra era caratteristica peculiare dell'economia castellonese: cessioni, permute, contratti enfiteutici a terza generazione venivano stipulati dal monastero, che arricchiva la quantità e la qualità dei suoi possedimenti. La stessa chiesa aveva tutt'intorno molino, orti, cortili, vigne e terreni seminativi (C.D.C., I, XXXVI; LIX).
La struttura feudale fu accresciuta dai Benedettini che dal dominio sul territorio traevano benefici consistenti: cessioni, donazioni, testamenti con clausole favorevoli, protezione di papi e sovrani, immunità dalle giurisdizioni vescovile e laicale.
Con Innocenzo II i monaci ottennero di poter eleggere al loro interno l'abate. L'autonomia del cenobio, che si distaccava così da quello madre di Montecassino, secondo consuetudine, comportava pure la possibilità che, a seguito del rifiuto del vescovo di Gaeta, i religiosi potessero essere ordinati dai vescovi delle diocesi vicine.
Nel 1339 si ha notizia che il sistema feudale era ancora intatto. Anche nell'atto di cessione del cenobio alla Congregazione di Monte Oliveto nel 1491 papa Innocenzo VIII denominava i Castellonesi vassalli del monastero.
L'espansione del cenobio non poteva non creare le premesse per un conflitto giurisdizionale con il vescovo di Gaeta di non breve durata.
A questo particolare periodo possono farsi risalire i falsi compilati a posteriori per giustificare a priori possedimenti che, altrimenti, sarebbero passati nelle mani del vescovo diocesano.
Nel XIV secolo il cenobio entrò in vivace contrasto con la famiglia Caetani.
Al culmine della signoria, i Benedettini castellonesi espandevano la loro influenza su chiese e cappelle ed inglobavano fette consistenti di territorio dal versante marino di Mola a quello montano di Maranola, da Gaeta al Garigliano e oltre ancora nel Mondragonese.
I pontefici riconoscevano al cenobio le acquisizioni territoriali e la proprietà di chiese succursali: così a metà del XII secolo l'espansionismo giungeva al suo apogeo in concomitanza con la non più vassalla sudditanza di Gaeta ai principi normanni.
Il cenobio possedeva un'infermeria (RdC, 3). La coltivazione della terra produceva ortaggi, frutta, grano, uva, olive, lino; l'industria di trasformazione delle materie prime consegnava farina, olio e vino.
L'enfiteusi ventinovennale o a terza generazione era il contratto più diffuso con l'aggiunta delle clausole del miglioramento delle colture o di subentro (diritto d'entratura). La prima enfiteusi è attestata nel 1165 (RdC, 9).
L'attuale toponomastica conserva tracce della struttura del fortilizio: gli orti, la torre, la torretta, il capo castello, la rampa, il forno pubblico.
Come spesso accade l'irrigidimento della signoria feudale, le vessazioni fiscali e forme di intransigenza incrinarono i rapporti tra monaci e popolazione. La nascita di un'imprenditoria laica, minoritaria ma decisa, creava le condizioni di distacco tra il cenobio e gli abitanti del Castellone.
Veniva svuotato il meccanismo dell'enfiteusi al suo interno, indebolendo così la ricchezza complessiva del monastero. I nuovi borghesi tendevano a versare sempre meno moneta nelle casse dei Benedettini a favore di nuovi luoghi di culto entro le mura o edificati ex novo fuori le mura. La chiesa della Natività di Maria, poi S. Maria del Forno (oggi S. Anna), costruita prima del mille su resti romani nel cuore del Castellone, già parrocchiale, alle dirette dipendenze del vescovo, diventò segno di questa lacerante tensione tra religiosi e popolazione. Il conflitto raggiunse punte accesissime con gli Olivetani che subentrarono nel 1491, i quali giunsero persino a vie di fatto, arricchendo la storia castellonese di singolari ed inquietanti episodi.

Fisionomia del territorio formiano e attività produttive.

Il territorio formiano ha nella sua odierna consolidata estensione i confini contrassegnati ad occidente dal diverticolo della via Appia (Canzatora) che giunge fin quasi al mare includendo la spiaggia di Vindicio, la stessa via Appia lato monte nel tratto fino alla località Piroli inclusa; a nord i limiti montani di Terruto, monte Ruazzo, la forcella di Campello, la forcella di Fraile, monte Altino, la forcella di Campetelle; a oriente i confini dettati dal monte Vomero, il canale Vadicerro, la strada Pampana, la località Penitro inclusa, un breve tratto dell'Appia per Scauri lato mare e la linea divisoria che taglia il monte di Scauri lato Formia; a sud il Golfo di Gaeta tra Vindicio e poco oltre la torre del Fico; a sud il golfo di Gaeta.
Per buona parte il territorio è collinare e montano, fatta eccezione per la striscia triangolare prossima alla costa sul versante gaetano, e per parte dell'abitato di Formia (eccetto il breve rilievo di Castellone ed il monte di Mola) fino a Mola inclusa. Pianeggiante è il versante per Scauri che occupa in profondità le località di Castagneto, Mergataro, Mamurrano, S. Croce, Penitro fin sotto le falde collinari di Maranola e del monte Campese, con le brevi alture che giungono sino alla strada provinciale che collega tra loro tra Maranola e Castellonorato.

Mola di Gaeta: J. Hondius, Nova et accurata Italiae hodierna descriptio... (1626), tav. IV.


La configurazione del distretto formiano risale a tempi piuttosto recenti; l'antica area medievale anteriore alla fondazione del castro di Gaeta doveva aver avuto un'estensione più ampia se ci si rifà alle denominazioni dei siti del Patrimonium S. Petri.
È dal X secolo circa che il territorio risulta diviso in due distretti civici, Mola e Castellone, ai quali si aggiunge la nascita di un altro agglomerato cittadino con le tipiche caratteristiche basso medievali, Maranola. Nel 1428 il territorio formiano veniva ulteriormente parcellizzato con il distacco da Maranola della nuova universitas di Castellonorato.
La riorganizzazione amministrativa influiva sul tessuto economico, comportando una variazione nella redistribuzione delle tassazioni.
Soltanto nella prima metà del XV secolo si stabilizzò la divisione del territorio, che rimase in piedi fino ai primi anni del XIX secolo.
I documenti assegnano un posto di rilievo a Castellone per i notevoli interessi economici che ruotavano attorno alla coltivazione degli olivi ed ai beni prodotti dall'attività agricola. Proprio nel contenzioso emergono alcuni dati utili per una lettura del sostrato produttivo di Castellone.
In particolare il lodo del 1339 (I manoscritti, 1) pone in evidenza l'opera di mediazione svolta dalla città di Gaeta e dal vescovo diocesano. Due elementi risaltano in tutta la loro pregnanza: la gran parte degli abitanti di Castellone è costituita da enfiteuti del cenobio benedettino; sulle scelte che rivestono un'ampia ricaduta sul territorio, la città di Gaeta esercita una sorta di attenzione, in virtù del suo ruolo di centro propulsore politico-economico.
Nel lodo si conferma la destinazione di Castellone a località con precipua vocazione agricola. L'assegnazione dei terreni in enfiteusi veniva generalmente concessa a 29 anni o a terza generazione con le clausole della miglioria del fondo, del divieto di cessione, dell'offerta di doni in natura o primizie della terra e/o degli allevamenti negli anniversari stabiliti.
I lodi del 1316 e del 1339 riportano l'elenco degli enfiteoti e delle norme che vietano la molitura delle olive in frantoi di altrui proprietà e ribadiscono l'impossibilità della cessione della bene avuto in enfiteusi ad altra persona, ad eccezione delle successioni ma soltanto in limitate circostanze e comunque previo espresso consenso dell'abate.
Ma tra il 1259 ed il 1306 si assisteva alla alienazione di beni anche tra semplici privati, fatto che attenuava il rigido regime di monopolio benedettino Occorre peraltro segnalare la forte parcellizzazione del territorio ed una diffusa conseguente microproprietà.
Le particolari condizioni climatiche favorivano la coltivazione dell'olivo. Tra XIII e XIV secolo gli oliveti coprivano una buona fetta della zona posta tra l'Appia ed il versante collinare ad occidente: le zone a confine con S. Angelo dei Marsi ed Arzano (nel territorio di Gaeta), Piroli e Pagnano che affacciano nell'Itrano, i declivi di S. Maria la Noce, Cassio, il monte di Mola. Ad oriente l'Appia segna il punto di partenza della coltivazione intensiva: alle contrade di Palazzo, Mergataro, Mamurrano, Ponzanello si aggiungevano fin verso i 300 m. circa s.l.m. i terrazzamenti ricadenti tra le opposte località di Paradiso (Maranola) ed Orsano (Castellonorato).
Per favorire i collegamenti venivano aperte nuove vie. Il cenobio di S. Erasmo chiedeva al nobile gaetano Docibile Malta (RdC, 38) la costruzione di una strada per unire alcuni possedimenti in Piroli, non lontano da terre incolte, che, nello stesso anno (1312), venivano ceduti in enfiteusi perpetua.
Alla coltivazione ad oliveto in genere veniva associato il vigneto, ricordato soprattutto nelle zone che si affacciavano sul versante gaetano, anche in prossimità o nei giardini dei centri abitati. Era in uso la coltivazione di vitigni nelle strade e negli orti di Castellone e del suo borgo, che venivano arrampicati sin quasi alla sommità delle abitazioni.
Tipici della zona erano i possedimenti con un caseggiato contenente il palmento ed il navello. Il palmento è il tino nel quale veniva raccolto il mosto durante la pigiatura dell'uva. Al tino venne poi preferita una vasca in muratura coperta da tavole. Il termine con il tempo ha indicato estensivamente l'intera struttura che ospitava la pigiatura delle uve.
Il navello era la vasca oblunga che raccoglieva, tramite un canaletto legato al palmento, il frutto della premitura dell'uva, ma indicava pure la vasca carenata dove riposava il latte dopo l'operazione di scrematura. È notorio che accanto all'impegno agricolo non era infrequente che i coloni conducessero piccoli allevamenti di caprini.
Il panorama della produzione arborea era completato dagli agrumeti. Un solo agrumeto viene ricordato in età basso medievale nel possedimento denominato "Corte di S. Erasmo". Viaggiatori stranieri quali Goethe, Swinburne, Chateaubriand hanno descritto l'impressione ricevuta dal tappeto di aranceti quasi ininterrotto tra Fondi e Minturno. Di Mola sono ricordati nella memoria anteguerra i numerosi giardini ad agrumeto.
Il territorio formiano si contraddistingueva anche per la presenza di carrubi, localizzati soprattutto nella fascia collinare. Le carrube venivano utilizzate nell'alimentazione umana, anche come farina dolcificante, e nell'allevamento animale quale cibo per gli equini, che costituivano i mezzi di locomozione e trasporto e di lavoro più usati.
Diffusi erano i boschi di querce, roverelle, sorbi, olmi e nelle zone più elevate quelli di lecci, faggi, carpini; più occasionali erano noceti, castagneti, mandorleti...
Tracce delle estensioni arboricole si ritrovano nei toponimi rimasti praticamente inalterati dal Medioevo ad oggi: Cerquito, Noce, Castagneto, Olmo, Mendola (per mandorlo), Mortella (per mirto)...
Un altro fenomeno che merita di essere posto in evidenza è l'utilizzo a fini agricoli delle cese, possedimenti disboscati. Una cesa è attestata a Pagnano nel 1300. Indirettamente è possibile dedurre un'attività di recupero di aree per la coltivazione di cereali, grazie al disboscamento forse introdotto dai Benedettini.
Ma sono attestate anche zone incolte tra 1310 e 1362. Si ha notizia che Piroli ed il monte di Mola siano stati parzialmente coltivati e qualche terreno incolto si sia avuto tra 1337 e 1355 si noti a Maranola, Cassio, S. Maria la Noce e nei pressi di S. Angelo dei Marzi.
La coltivazione di grano e di lino è poco evidenziata nella documentazione. Ma questi prodotti dovevano essere di più ampia coltura, in quanto l'esazione delle decime nella diocesi di Gaeta, attestata ancora nel 1576 nella visita pastorale del vescovo Pietro Lunel, è notoriamente legata alla produzione cerealicola. In particolare nel documento è annotata la riscossione per le coltivazioni di grano e di lino.
In età medievale numerose sono le testimonianze del Codex e della Rubrica delle Carte sull'esistenza di acque e fontane pubbliche. Tra i principali corsi sono ricordati il fiumicello friziolo, il fiumicello S. Croce a Gianola, la fontana della Madonna della Palomba, il torrente di Rialto, e tra le fontane quella di S. Remigio.

Formia: fontana di S. Remigio. Disegno di P. Mattej.

Formia: fontana di S. Remigio. Particolare del mascherone

 

Anche i toponimi registrano la presenza di acque: Acqualonga, Acquatraversa, Piscinola, fonte S. Giovanni (Maranola), Acquarolo, Alla fontana (Maranola).
Tali acque, alcune a semplice regime torrentizio, erano canalizzate per finalità irrigue e per evitare impaludamenti, come nel caso della realizzazione di una chiusa detta di "S. Raymo" (RdC, 134).
Per quanto riguarda l'acquedotto romano di Mola la captazione avveniva da sorgenti prossime agli archi, i cui resti sono ancora in situ.

Formia: Torre di Mola


Il sistema di acque abbondanti permetteva la collocazione di industrie di trasformazione quali mulini e frantoi, segnalati dal Codex già a partire dal IX secolo. Ben cinque mulini sono attestati a Mola nel 1386 (RdC, 103), oltre a quelli situati strategicamente a servizio del cenobio di S. Erasmo. Frantoi sono disseminati sul territorio: S. Angelo dei Marzi, borgo di Castellone, Mola, Gianola e lungo la collina, in particolare a Ponzanello, Orsano, Trivio, Maranola. In genere veniva collocata nei pressi delle zone a più alta produzione.
Un discorso a parte merita l'attività estrattiva. A nord dell'attuale stazione ferroviaria vi era una cava per l'argilla utilizzata nella fabbricazione di mattoni, mentre a Piroli vi era una cava per l'estrazione di pietre (C.D.C., I, XLVI).

La proprietà tra Chiesa e feudalità.


A partire dal XV secolo la proprietà formiana ecclesiastica si assottigliava a causa della spoliazione operata dalle famiglie dei nuovi ceti emergenti attraverso il meccanismo delle usurpazioni. tra l'altro nelle concessioni enfiteutiche si prevedeva la restituzione delle spese sostenute dagli affittuari per il miglioramento dei fondi agricoli, cosicché il cenobio di S. Erasmo si vedeva costretto a cedere le proprietà agli stessi affittuari per poter rimborsare quelle spese.
Per sopperire agli svantaggi causati dal meccanismo si stipulavano enfiteusi perpetue a canoni bassi, ma questi canoni erano soggetti nel volgere di qualche anno ad una rapida svalutazione.
Il sistema maggiormente utilizzato dalle famiglie aristocratiche di antica e nuova ricchezza era l'insinuazione dei membri del proprio clan familiare tra le file del clero, soprattutto nei capitoli della cattedrale, delle chiese collegiate e nei capitoli dei cenobi. I beni dei capitoli venivano alienati alla famiglie di appartenenza o comunque gestiti favorendo la dinastia di provenienza o quella affine. L'incremento del patrimonio familiare era così affidato ad una sorta di circolo virtuoso, con l'intrinseca complicità del clero.
I membri delle famiglie più in vista mostravano il loro status con la creazione di chiese e cappelle di patronato privato. Il patronato pubblico veniva costituito quando l'intera struttura sociale nel suo complesso spingeva per una visibilità cittadina del patronato. Il caso più evidente è il patronato erasmiano sancito negli statuti di Gaeta.
Questo fenomeno è anche ben attestato tra le famiglie della borghesia rurale, che desideravano evidenziare la loro differenziazione rispetto al resto della popolazione, fondendo il loro auspicio con la ricerca di una devozione particolare.
Tuttavia all'erosione del sistema immobiliare la Chiesa rispondeva con la diversificazione degli investimenti attraverso operazioni mobiliari, che favorivano i trasferimenti a proprio vantaggio (donazioni, carità), inclusi quelli coatti (decime).
Nella citata visita pastorale di Pietro Lunel è annotata la puntuale riscossione delle decime nelle terre di Maranola e Castellonorato ed in particolare per le chiese di S. Maria di Castagneto, S. Nazaro, S. Giovanni a Palazzo, retta dal sacerdote di Mola Giovanni de Jop, S. Giovanni de Agla.
La riscossione veniva appuntata nei libri delle Rationes decimarum della Campania, in quanto la diocesi gaetana apparteneva alla regione ecclesiastica campana.
Il sistema della decima si legava strettamente alla coltivazione della terra tanto che poteva ben denominarsi decima prediale. Tra V e X secolo vigeva la partizione in quattro destinazioni: una parte al vescovo, una parte al clero, una per la carità e una per il restauro degli edifici.
Dopo questo periodo i 3/4 delle decime venivano controllati dai monasteri o dai vescovi, che li annoveravano tra i redditi patrimoniali come fossero redditi spettanti per il possesso delle terre derivanti da diritti di giurisdizione.
La più antica esazione di decima nella diocesi di Gaeta dopo il X secolo riguarda il cenobio di S. Erasmo (RdC, 9) e precede quella di S. Caterina di Gaeta ricordata nel 1202. Per il cenobio castellonese i documenti informano del contenzioso aperto nel 1276 (RdC, 21) sull'attribuzione della decima. Anche la città di Gaeta si oppose al pagamento della decima nel 1345 (C.D.C., III (I), CCCCLXXI), proponendo appello contro la decisione assunta in prima istanza.
Tale tassazione più che sulle persone gravava sulle terre comprese nei confini della parrocchia per assicurare una più facile esazione.
Con lo spostamento della sede papale ad Avignone e durante lo scoppio dello scisma d'Occidente le aristocrazie laiche (patriziati urbani, piccola nobiltà rurale) accentuarono la penetrazione nelle strutture economiche ecclesiastiche attraverso diritti di patronato, influenza nei e sui monasteri maschili e femminili, sulle cappellanie. Tale stato veniva facilitato dalla crisi di governo dei monasteri, che lasciarono ampio spazio alle forze emergenti laiche nel controllo su prebende e benefici.
Ma a partire dal XV secolo si cominciava a notare un'inversione di tendenza e la proprietà ecclesiastica, pur erosa era ancora quantitativamente e qualitativamente consistente. È il periodo nel quale il cenobio di S. Erasmo passava nelle mani dei Benedettini di Monte Oliveto Maggiore (1491) e a Mola le strutture economiche erano in potere della nuova borghesia mercantile.
Nella seconda metà del XVI secolo si assisteva al processo di recupero e rafforzamento della proprietà ecclesiastica. Si accrebbe la produttività delle terre, annullando le antiche concessioni enfiteutiche poco redditizie e sostituendole con locazioni triennali o sessennali, elevando i canoni e rivendicando censi e diritti di decima caduti in disuso. Questo provocò sovente lo scontro con la feudalità, che aveva usucapito nel corso del tempo parte dei beni ecclesiastici immobiliari di natura agraria. E non era, pertanto, un caso che vennero originati lunghi procedimenti giudiziari soprattutto con il clero secolare.
L'economia di Mola e Castellone contribuì ad incrementare le entrate della Chiesa nelle varie articolazioni: mensa vescovile, mense dei capitoli, monasteri, patronati, confraternite...
Il Regno di Napoli, di fronte a questa nuova impennata di introiti ecclesiastici nel XVI secolo, non riuscì ad agire fiscalmente per colpire queste nuove redditualità. Anche il fenomeno dell'assegnazione delle commende, soprattutto abbaziali come per S. Erasmo, rimaneva un'esclusiva pontificia. Le commende erano devolute a personalità di grado più elevato della Curia romana soprattutto se di rilevante consistenza economica.
Al cardinal Giuliano della Rovere fu affidata la commenda di S. Erasmo che mantenne fino al 1491. Il cenobio castellonese doveva considerarsi di tenore medio-alto.
A completare il quadro concorreva anche l'istituto del giuspatronato, consistente nel diritto di nomina o presentazione di un chierico all'autorità ecclesiastica per il conferimento di un beneficio vacante su patronati ecclesiastici o laicali. A Mola e Castellone, così come nei centri collinari di Maranola e Castellonorato erano presenti patronati laicali sia quelli squisitamente privati ma anche quelli pubblici detenuti dalle universitates civium.
Altra forma di indubbio interesse era costituita dalla tutela o patronato regio su chiese per insinuare nei "luoghi" della giurisdizione ecclesiastica strumenti e persone legate al potere statale.
Lo sviluppo dell'istituto del patronato tra XV e XVI secolo era connesso al consolidamento della nuova borghesia cittadina e rurale, che si era fatta largo edificando nuovi luoghi di culto, come nel borgo di Castellone o nelle campagne. L'aristocrazia riservava per sè il diritto di seggio.
Un ulteriore fenomeno che diede impulso alla diversificazione delle attività economiche è stata la costituzione di censi, il cui primo esempio pervenuto è del 1276 (RdC, 21). Questa tipologia tra fine Medioevo e XVI secolo ebbe notevole impulso. È interessante notare l'oscillazione dei tassi applicati, spesso al limite dell'usura, così come si evince dagli scarsi documenti tra XV e XVI secolo.
L'interconnessione tra economia laica ed ecclesiastica nel territorio formiano è così forte che qualsiasi analisi non può prescindere da una visione d'assieme delle problematiche socio-economiche.
Un discorso a parte, però, può e deve essere effettuato per la tassazione civile. L'imposizione fiscale era preceduta dalle rilevazioni costituite dai censimenti finalizzati all'applicazione del focatico. La leva fiscale colpiva la famiglia piuttosto che la persona.
Nel "Liber focorum" (tra 1449 e 1456) sono assegnati fuochi 76 a Castellonorato, corrispondenti a due once, e fuochi 163 a Maranola con sette once da prelevarsi con Castellonorato. Rispetto alla tassazione precedente appare una lieve diminuzione, che rispecchia un probabile decremento demografico.
Alla separazione di Castellonorato da Maranola sancita nel 1428 faceva seguito un contenzioso sull'interpretazione dei confini stabiliti, per cui è probabile che l'esazione avvenisse con le due università ancora legate nel versamento della tassa, ma divise nella rilevazione.
Il successivo censimento aragonese del 1459 attribuiva fuochi 117 a Castellone e fuochi 63 a Mola. I due nuclei collinari assommati raggiungono una popolazione più elevata rispetto a quelli di Mola e Castellone. Pur con le dovute riserve per la tipologia di rilevazione finalizzata alla tassazione, e pertanto non sempre compiutamente attendibile, non si può fare a meno di notare che il fulcro economico di Maranola doveva aver avuto uno slancio produttivo di tutto rispetto.
Il riflesso del favorevole trend economico maranolese potrebbe essere colto nell'analisi dell'assetto urbanistico del centro collinare, in quanto le risorse economiche venivano investite più facilmente nel campo dell'edilizia.
Una considerazione finale riguarda il numero degli abitanti di Mola e Castellone.
Per rapportare il focatico al numero degli abitanti occorre assegnare approssimativamente una media di cinque persone a fuoco. Per tale effetto Castellone avrebbe 585 abitanti e Mola 315. Riscontri sull'entità delle popolazioni sono possibili soltanto dopo l'introduzione degli status animarum e del catasto onciario, in età più tarda.
Così rivestono particolare interesse le notizie desumibili della documentazione archivistica. Nella Rubrica delle Carte si incontrano due documenti, l'uno datato 1316 (RdC, 42), l'altro 1339 (RdC, 59). Il manoscritto del 2 maggio 1339, VII indizione, offre stime più attendibili. Gli enfiteoti che sottoscrivono il lodo del 1339 sono 102/105.
Se si moltiplica al numero di enfiteoti, con lo status di capifamiglia, il numero di cinque componenti per nucleo familiare secondo il nucleo convenzionale del focatico, si raggiunge la cifra di 510/525 abitanti. Se si aggiungono i mercatores ed i membri delle corporazioni degli artigiani, ma non i componenti dell'alto clero, gli aristocratici ed i pauperes (non conteggiati ai fini del focatico) si è prossimi alle 585 unità indicate dal censimento aragonese del 1459.
Tra il 1339 ed il 1459 sembra assente un incremento demografico. Ma questo è un dato soltanto apparente. La peste del 1348 ed il connesso declino demografico del XIV secolo avevano sconvolto le regioni d'Europa e d'Italia con, sembra, la perdita di quasi un terzo della popolazione. La pestilenza aveva accelerato un andamento demografico negativo iniziato nella seconda metà del XIII secolo.
Raggiunse anche il Regno di Napoli, colpendo anche il Formianum: due soli contratti vennero stipulati tra il 1347 ed il 1351. A questi dati bisogna anche aggiunte le perdite dovute alle guerre. Infatti nel 1347 Castellone era stato assaltato e conquistato: "Eoque Anno [1347 n.d.A.] de mense Maii Comes Fundorum ivit supra Molas, et Castellonum, cum plusquam 500. militibus, et duobus mille peditibus, et dissipavit et destruxit eam".
La contemporanea ripresa demografica (tuttavia frenata dall'alto tasso di mortalità infantile e dai bassi valori della vita media del tempo) ed economica del sec. XV permise ai Castellonesi di ascendere nell'arco di poco più di un secolo (stima coincidente con la ripopolazione di altri centri italiani) al numero contabilizzato nel censimento aragonese.
Di altri centri del Regno napoletano siti lungo il Lazio costiero non esistono computi del numero di abitanti anteriormente alla prima metà del XV secolo, per cui il documento riveste particolare importanza nello studio delle vicende demografiche tardo medievali.

Il saggio di R. Frecentese è tratto da " Storia di Formia illustrata (a cura di M. D'Onofrio). Vol. II: Età medievale". Sellino editore, Pratola sannita, 2000, pp.181-202