Tra
X e XI secolo gli insediamenti originati dalla frantumazione della
città formiana tendono ad una progressiva stabilizzazione.
Agli originari nuclei, formatisi probabilmente durante lo spostamento
dell'episcopato in Gaeta, si sostituiscono e si sovrappongono
strutture meglio qualificate sul piano urbanistico.
Purtroppo per il periodo antecedente il X secolo le fonti documentarie
sia archivistiche che archeologiche non permettono, allo stato
attuale delle ricerche, di delineare con precisione la struttura
dei centri abitati, così come manca una descrizione complessiva
del territorio e della sua configurazione.
Soltanto a partire dal X-XI secolo le informazioni, pur frammentarie
e senz'altro ancora di piccola consistenza, offrono tuttavia qualche
ulteriore elemento di analisi.
Il nucleo urbico di Mola si collocava su un diverticolo della
via Appia, parallelo alla linea di costa per ricongiungersi nella
parte terminale del percorso alla strada consolare all'altezza
del ponte romano sito sul fiumicello "friziolo" o "frigido",
l'attuale rio Fresco. Questo nuovo collegamento appariva funzionale
all'attività orientata alla sopravvivenza del nucleo demico.
Dal X secolo circa in poi costituiva la direttrice di sviluppo
edilizio, grazie alla quale si avviò il processo di formazione
di un vero e proprio borgo.
Castellone per la sua peculiare posizione dominante veniva cinto
di mura, successivamente fortificate. Il suo sviluppo appariva
legato alle vicende del complesso monumentale di S. Erasmo, che,
dopo l'acquisizione della famiglia dei Docibile, passava nelle
mani dei Benedettini cassinesi poco oltre la metà dell'XI
secolo.
Il nuovo propulsivo slancio di recupero veniva guidato dai monaci,
che permettevano al nucleo abitato uno sviluppo dinamico con l'effetto
di accentuare il processo di identificazione demica. Se questo
aveva positivi effetti sull'organizzazione socio-economica, pur
tuttavia alimentò in negativo il senso di distacco rispetto
all'altro nucleo di Mola.
I monaci portavano con loro l'esperienza maturata nel recupero
e riorganizzazione del territorio di S. Benedetto, promossi dall'abate
Aligerno e poi rimodulati dall'abate Desiderio. Le cognizioni
si tramutavano nella predisposizione di un modello di organizzazione
sociale ed economica applicata a Castellone. L'economia fondiaria
veniva sorretta dalla laboriosità di una popolazione dedita
all'attività rurale, organizzata sin dai tempi dell'inclusione
delle terre formiane nel Patrimonium S. Petri. Difatti una masseria
detta di S. Erasmo è ricordata nell'845 dal Codex Diplomaticus
Cajetanus (= C.D.C., I, VII), una domusculta è attestata
nel 906 (C.D.C., I, XIX) ed un'altra nei pressi del fiumicello
frigido l'anno 1120 (C.D.C., II, CCXCV).
I due "borghi" cristallizzarono così nel tempo
la loro specificità: Mola nell'attività economica
industriale di trasformazione dei prodotti agricoli e marittima
di trasporto e collegamento con Gaeta; Castellone nella produzione
agricola e nella gestione della proprietà fondiaria, dapprima
con i Benedettini, in seguito con il concorso della nuova laica
borghesia imprenditrice tra XV e XVI secolo.
Castellone e Mola.
Leone
Ostiense nell'880 definiva la zona orientale costiera di Formia
"ad Molas".
Un documento del Codex ricorda un servo affrancato dalla schiavitù
da Docibile I nel 906 proveniente proprio da Mola (C.D.C., I,
XIX).
G. Gattola attribuiva il nome "verosimilmente dalle molte
mole ovvero macine che quivi erano per l'abbondanza di acque".
Acqua preziosa e fluente per quantità se il curatore degli
Acta Sanctorum annotava "Nunc Molae nomen factum loco à
frequentia Molarum, quas à vicinis collibus defluentes,
cum gratissimo strepitu, aquae circumagunt". L'acqua e la
particolare collocazione del sito si prestavano all'innesto di
proficue attività.
Nel X secolo con il progressivo incremento delle macine ad acqua
Mola era divenuta punto nodale dell'industria di trasformazione
del grano e delle olive, elementi cardine dell'economia rurale
alto medievale.
Mola in questo periodo si sviluppava attorno alla chiesa di S.
Lorenzo con una fisionomia abbastanza delineata (C.D.C., II, CCCIII).
La crescita progressiva dell'abitato trova riscontro in alcuni
documenti del Codex.
Nel 1120 il nucleo urbico veniva definito Burgum mole (C.D.C.,
II, CCXCV) nel senso non tanto di struttura fortificata (occorrerà
attendere ancora qualche tempo per vedervi una precisa edificazione
difensiva), quanto luogo idoneo per gli scambi commerciali. Il
borgo accoglieva il flusso immigratorio dai casali d'oltre Garigliano,
fenomeno periodico e ricorrente, così come si evince dai
cognomi contenuti nei manoscritti del Codex, della Rubrica delle
Carte (= RdC), nei seriori registri parrocchiali (primi anni sec.
XVI) e nella platea della chiesa di S. Lorenzo.
Mola: F. Hackert, Mola
di Gaeta (1790). Dalla serie: Porti delle Due Sicilie. Palazzo
reale di Caserta.
Da quanto è dato conoscere Mola viveva soprattutto del
frutto dei vigneti, delle terre seminative, degli orti; i caseggiati
si estendevano lungo l'asse che, partendo dai resti dell'acquedotto
romano, giungeva sino al mare. È la cosiddetta zona dei
monumenti, citata due volte nel Codex.
Nel testamento di Gregorio, redatto nel 1024 (C.D.C., I, CXLIII),
si affidava la costruzione di un mulino nel borgo di Mola. Si
è a conoscenza dell'esistenza di un mulino detto della
Palude (o sotto la Palude) (C.D.C., I, XXXVI) di proprietà
della chiesa di S. Erasmo. Ciò non deve meravigliare perché
è norma comune che i Castellonesi abbiano da sempre posseduto
proprietà a Mola e non viceversa. Codex e Rubrica delle
Carte trattano estesamente di mulini e montani, la gran parte
dei quali si trovava per l'appunto nel territorio di Mola.
Intorno al IX secolo, forse poco più tardi, a causa del
degrado, causato dall'abbandono forzoso di una larga fetta del
territorio e per la particolare posizione geografica, si erano
creati impaludamenti extra burgum in prossimità degli sbocchi
dei corsi d'acqua verso il mare.
Si potrebbe pensare che comunque tale situazione non ebbe carattere
permanente. Con l'incremento dell'attività produttiva i
duchi gaetani avevano progettato un'opera di bonifica in coincidenza
con il ripristino del porto ed il riattamento delle mura di Castellone
ed abbiano promosso lo sviluppo del tessuto urbico di Mola, al
fine di rendere più remunerativa l'attività di molini
e montani con un trasporto diretto via mare verso Gaeta. Il trasporto
marittimo si rivelava più adatto per la precaria condizione
dei collegamenti terrestri e probabilmente per ragioni di squisita
convenienza economica.
La capitale ducale appariva lo sbocco naturale delle lavorazioni
approntate a Mola sia finalizzate al consumo interno sia all'immissione
nel mercato marittimo verso altri scali del Mediterraneo. Nel
1306 nel nucleo centrale del borgo è attestata l'esistenza
di un ospedale (C.D.C., III (I), CCCCXXX).
Non si conosce molto altro su Mola tra IX e XIV secolo.
Il Castellone, sorto sul punto più eminente dell'acropoli
romana, aveva tutt'intorno robuste mura, al di sotto delle quali
si stagliava una cinta in opera poligonale.
Da sempre munito di difese naturali (dislivelli) ed artificiali
(mura), la sua popolazione aveva scelto, forse proprio per questo
motivo, di risiedere nella zona alta, panoramica per l'avvistamento
del pericolo e lontana quanto basta dalle grandi vie di comunicazione
(l'Appia). La dizione Castellone non è nuova nel territorio
aurunco. Un sito detto Castello è nel borgo di Gaeta; un
Castellone è tra il Garigliano e Sessa Aurunca (1066).
Le mura di Castellone erano state riparate più volte. Nel
944 il duca Docibile II finanziò l'opera non appena si
erano sciolte le tensioni sul ducato (C.D.C., I, XXXVI).
L'attivo impegno dei Benedettini si accentuò dall'XI secolo
in poi. Il nucleo edilizio si denominò Castellone, cioè
a dire castello irregolare con più ampie dimensioni.
Le cinte murarie delle città meridionali avevano il compito
di circoscrivere i luoghi abitati in sicuri rifugi, peraltro già
utilizzati sin dai tempi delle incursioni barbariche.
G. Gattola ha sostenuto che Castellone abbia avuto origine nel
XIV secolo, avendo trovato una notizia datata 1312 presso la Real
Zecca, nella quale si leggeva di un ordine del re Roberto in risposta
ad una supplica rivoltagli da fra Giacomo, abate di S. Erasmo.
Lo stesso autore rammentava che in una pergamena custodita presso
il monastero di S. Angelo in Planciano ricorreva la dicitura "Monjstero
di S. Erasmo Castri Castellionj".
Nel Codex la chiesa di S. Erasmo è detta di Castellone
per la prima volta nel 1305 (C.D.C., III (I), CCCCXXVIII). Il
1° gennaio 1364 l'itrano Nicola Gallozzi lasciava nel proprio
testamento un'offerta pro "pauperibus Castellonis" (C.D.C.,
III (I), CCCCLII).
La Rubrica delle Carte attesta che il toponimo è ancora
più antico. Gregorio Ploja, notaio in Gaeta, predisponeva
la copia di una bolla pontificia di Innocenzo II datata 1143 e
diretta a "Giovanni abbate del Monastero di S. Erasmo di
Castellone" (RdC, 4), riportata pure dal Lancellotti.
A conferma della vetustà del termine nell'anno 1197 si
ricorda la "donazione fatta da Riccardo dell'Aquila conte
di Fondi al Monastero di S. Erasmo di Castellone, che dicevasi
Formia e per esso al di lui abbate Diodato avo del detto Conte"
(RdC, 11).
Pertanto Castellone esisteva prima del 1377, anno nel quale Onorato
I Caetani, secondo una tradizione accettata ma non documentata,
gli avrebbe dato forma turrita. Ma la vera opera di ricostruzione
era già avvenuta per impulso dei Benedettini.
Castellone, pur non essendo mai stato definito borgo ma semplicemente
terra murata, sembra privo di una struttura amministrativa laica
autonoma.
L'agglomerato, sin dalla sua costituzione il nucleo maggiore per
numero di abitanti tra quelli nati dalla divisione del territorio
formiano, era legato al cenobio di S. Erasmo da una forma di subordinazione
feudale attestata dal Lancellotti e ribadita costantemente nel
corso dei secoli.
Coloni e fittavoli vivevano nell'845 e nel 919 nella masseria
di S. Erasmo. La lavorazione della terra era caratteristica peculiare
dell'economia castellonese: cessioni, permute, contratti enfiteutici
a terza generazione venivano stipulati dal monastero, che arricchiva
la quantità e la qualità dei suoi possedimenti.
La stessa chiesa aveva tutt'intorno molino, orti, cortili, vigne
e terreni seminativi (C.D.C., I, XXXVI; LIX).
La struttura feudale fu accresciuta dai Benedettini che dal dominio
sul territorio traevano benefici consistenti: cessioni, donazioni,
testamenti con clausole favorevoli, protezione di papi e sovrani,
immunità dalle giurisdizioni vescovile e laicale.
Con Innocenzo II i monaci ottennero di poter eleggere al loro
interno l'abate. L'autonomia del cenobio, che si distaccava così
da quello madre di Montecassino, secondo consuetudine, comportava
pure la possibilità che, a seguito del rifiuto del vescovo
di Gaeta, i religiosi potessero essere ordinati dai vescovi delle
diocesi vicine.
Nel 1339 si ha notizia che il sistema feudale era ancora intatto.
Anche nell'atto di cessione del cenobio alla Congregazione di
Monte Oliveto nel 1491 papa Innocenzo VIII denominava i Castellonesi
vassalli del monastero.
L'espansione del cenobio non poteva non creare le premesse per
un conflitto giurisdizionale con il vescovo di Gaeta di non breve
durata.
A questo particolare periodo possono farsi risalire i falsi compilati
a posteriori per giustificare a priori possedimenti che, altrimenti,
sarebbero passati nelle mani del vescovo diocesano.
Nel XIV secolo il cenobio entrò in vivace contrasto con
la famiglia Caetani.
Al culmine della signoria, i Benedettini castellonesi espandevano
la loro influenza su chiese e cappelle ed inglobavano fette consistenti
di territorio dal versante marino di Mola a quello montano di
Maranola, da Gaeta al Garigliano e oltre ancora nel Mondragonese.
I pontefici riconoscevano al cenobio le acquisizioni territoriali
e la proprietà di chiese succursali: così a metà
del XII secolo l'espansionismo giungeva al suo apogeo in concomitanza
con la non più vassalla sudditanza di Gaeta ai principi
normanni.
Il cenobio possedeva un'infermeria (RdC, 3). La coltivazione della
terra produceva ortaggi, frutta, grano, uva, olive, lino; l'industria
di trasformazione delle materie prime consegnava farina, olio
e vino.
L'enfiteusi ventinovennale o a terza generazione era il contratto
più diffuso con l'aggiunta delle clausole del miglioramento
delle colture o di subentro (diritto d'entratura). La prima enfiteusi
è attestata nel 1165 (RdC, 9).
L'attuale toponomastica conserva tracce della struttura del fortilizio:
gli orti, la torre, la torretta, il capo castello, la rampa, il
forno pubblico.
Come spesso accade l'irrigidimento della signoria feudale, le
vessazioni fiscali e forme di intransigenza incrinarono i rapporti
tra monaci e popolazione. La nascita di un'imprenditoria laica,
minoritaria ma decisa, creava le condizioni di distacco tra il
cenobio e gli abitanti del Castellone.
Veniva svuotato il meccanismo dell'enfiteusi al suo interno, indebolendo
così la ricchezza complessiva del monastero. I nuovi borghesi
tendevano a versare sempre meno moneta nelle casse dei Benedettini
a favore di nuovi luoghi di culto entro le mura o edificati ex
novo fuori le mura. La chiesa della Natività di Maria,
poi S. Maria del Forno (oggi S. Anna), costruita prima del mille
su resti romani nel cuore del Castellone, già parrocchiale,
alle dirette dipendenze del vescovo, diventò segno di questa
lacerante tensione tra religiosi e popolazione. Il conflitto raggiunse
punte accesissime con gli Olivetani che subentrarono nel 1491,
i quali giunsero persino a vie di fatto, arricchendo la storia
castellonese di singolari ed inquietanti episodi.
Fisionomia
del territorio formiano e attività produttive.
Il
territorio formiano ha nella sua odierna consolidata estensione
i confini contrassegnati ad occidente dal diverticolo della via
Appia (Canzatora) che giunge fin quasi al mare includendo la spiaggia
di Vindicio, la stessa via Appia lato monte nel tratto fino alla
località Piroli inclusa; a nord i limiti montani di Terruto,
monte Ruazzo, la forcella di Campello, la forcella di Fraile,
monte Altino, la forcella di Campetelle; a oriente i confini dettati
dal monte Vomero, il canale Vadicerro, la strada Pampana, la località
Penitro inclusa, un breve tratto dell'Appia per Scauri lato mare
e la linea divisoria che taglia il monte di Scauri lato Formia;
a sud il Golfo di Gaeta tra Vindicio e poco oltre la torre del
Fico; a sud il golfo di Gaeta.
Per buona parte il territorio è collinare e montano, fatta
eccezione per la striscia triangolare prossima alla costa sul
versante gaetano, e per parte dell'abitato di Formia (eccetto
il breve rilievo di Castellone ed il monte di Mola) fino a Mola
inclusa. Pianeggiante è il versante per Scauri che occupa
in profondità le località di Castagneto, Mergataro,
Mamurrano, S. Croce, Penitro fin sotto le falde collinari di Maranola
e del monte Campese, con le brevi alture che giungono sino alla
strada provinciale che collega tra loro tra Maranola e Castellonorato.
Mola di Gaeta: J. Hondius,
Nova et accurata Italiae hodierna descriptio... (1626), tav. IV.
La configurazione del distretto formiano risale a tempi piuttosto
recenti; l'antica area medievale anteriore alla fondazione del
castro di Gaeta doveva aver avuto un'estensione più ampia
se ci si rifà alle denominazioni dei siti del Patrimonium
S. Petri.
È dal X secolo circa che il territorio risulta diviso in
due distretti civici, Mola e Castellone, ai quali si aggiunge
la nascita di un altro agglomerato cittadino con le tipiche caratteristiche
basso medievali, Maranola. Nel 1428 il territorio formiano veniva
ulteriormente parcellizzato con il distacco da Maranola della
nuova universitas di Castellonorato.
La riorganizzazione amministrativa influiva sul tessuto economico,
comportando una variazione nella redistribuzione delle tassazioni.
Soltanto nella prima metà del XV secolo si stabilizzò
la divisione del territorio, che rimase in piedi fino ai primi
anni del XIX secolo.
I documenti assegnano un posto di rilievo a Castellone per i notevoli
interessi economici che ruotavano attorno alla coltivazione degli
olivi ed ai beni prodotti dall'attività agricola. Proprio
nel contenzioso emergono alcuni dati utili per una lettura del
sostrato produttivo di Castellone.
In particolare il lodo del 1339 (I manoscritti, 1) pone in evidenza
l'opera di mediazione svolta dalla città di Gaeta e dal
vescovo diocesano. Due elementi risaltano in tutta la loro pregnanza:
la gran parte degli abitanti di Castellone è costituita
da enfiteuti del cenobio benedettino; sulle scelte che rivestono
un'ampia ricaduta sul territorio, la città di Gaeta esercita
una sorta di attenzione, in virtù del suo ruolo di centro
propulsore politico-economico.
Nel lodo si conferma la destinazione di Castellone a località
con precipua vocazione agricola. L'assegnazione dei terreni in
enfiteusi veniva generalmente concessa a 29 anni o a terza generazione
con le clausole della miglioria del fondo, del divieto di cessione,
dell'offerta di doni in natura o primizie della terra e/o degli
allevamenti negli anniversari stabiliti.
I lodi del 1316 e del 1339 riportano l'elenco degli enfiteoti
e delle norme che vietano la molitura delle olive in frantoi di
altrui proprietà e ribadiscono l'impossibilità della
cessione della bene avuto in enfiteusi ad altra persona, ad eccezione
delle successioni ma soltanto in limitate circostanze e comunque
previo espresso consenso dell'abate.
Ma tra il 1259 ed il 1306 si assisteva alla alienazione di beni
anche tra semplici privati, fatto che attenuava il rigido regime
di monopolio benedettino Occorre peraltro segnalare la forte parcellizzazione
del territorio ed una diffusa conseguente microproprietà.
Le particolari condizioni climatiche favorivano la coltivazione
dell'olivo. Tra XIII e XIV secolo gli oliveti coprivano una buona
fetta della zona posta tra l'Appia ed il versante collinare ad
occidente: le zone a confine con S. Angelo dei Marsi ed Arzano
(nel territorio di Gaeta), Piroli e Pagnano che affacciano nell'Itrano,
i declivi di S. Maria la Noce, Cassio, il monte di Mola. Ad oriente
l'Appia segna il punto di partenza della coltivazione intensiva:
alle contrade di Palazzo, Mergataro, Mamurrano, Ponzanello si
aggiungevano fin verso i 300 m. circa s.l.m. i terrazzamenti ricadenti
tra le opposte località di Paradiso (Maranola) ed Orsano
(Castellonorato).
Per favorire i collegamenti venivano aperte nuove vie. Il cenobio
di S. Erasmo chiedeva al nobile gaetano Docibile Malta (RdC, 38)
la costruzione di una strada per unire alcuni possedimenti in
Piroli, non lontano da terre incolte, che, nello stesso anno (1312),
venivano ceduti in enfiteusi perpetua.
Alla coltivazione ad oliveto in genere veniva associato il vigneto,
ricordato soprattutto nelle zone che si affacciavano sul versante
gaetano, anche in prossimità o nei giardini dei centri
abitati. Era in uso la coltivazione di vitigni nelle strade e
negli orti di Castellone e del suo borgo, che venivano arrampicati
sin quasi alla sommità delle abitazioni.
Tipici della zona erano i possedimenti con un caseggiato contenente
il palmento ed il navello. Il palmento è il tino nel quale
veniva raccolto il mosto durante la pigiatura dell'uva. Al tino
venne poi preferita una vasca in muratura coperta da tavole. Il
termine con il tempo ha indicato estensivamente l'intera struttura
che ospitava la pigiatura delle uve.
Il navello era la vasca oblunga che raccoglieva, tramite un canaletto
legato al palmento, il frutto della premitura dell'uva, ma indicava
pure la vasca carenata dove riposava il latte dopo l'operazione
di scrematura. È notorio che accanto all'impegno agricolo
non era infrequente che i coloni conducessero piccoli allevamenti
di caprini.
Il panorama della produzione arborea era completato dagli agrumeti.
Un solo agrumeto viene ricordato in età basso medievale
nel possedimento denominato "Corte di S. Erasmo". Viaggiatori
stranieri quali Goethe, Swinburne, Chateaubriand hanno descritto
l'impressione ricevuta dal tappeto di aranceti quasi ininterrotto
tra Fondi e Minturno. Di Mola sono ricordati nella memoria anteguerra
i numerosi giardini ad agrumeto.
Il territorio formiano si contraddistingueva anche per la presenza
di carrubi, localizzati soprattutto nella fascia collinare. Le
carrube venivano utilizzate nell'alimentazione umana, anche come
farina dolcificante, e nell'allevamento animale quale cibo per
gli equini, che costituivano i mezzi di locomozione e trasporto
e di lavoro più usati.
Diffusi erano i boschi di querce, roverelle, sorbi, olmi e nelle
zone più elevate quelli di lecci, faggi, carpini; più
occasionali erano noceti, castagneti, mandorleti...
Tracce delle estensioni arboricole si ritrovano nei toponimi rimasti
praticamente inalterati dal Medioevo ad oggi: Cerquito, Noce,
Castagneto, Olmo, Mendola (per mandorlo), Mortella (per mirto)...
Un altro fenomeno che merita di essere posto in evidenza è
l'utilizzo a fini agricoli delle cese, possedimenti disboscati.
Una cesa è attestata a Pagnano nel 1300. Indirettamente
è possibile dedurre un'attività di recupero di aree
per la coltivazione di cereali, grazie al disboscamento forse
introdotto dai Benedettini.
Ma sono attestate anche zone incolte tra 1310 e 1362. Si ha notizia
che Piroli ed il monte di Mola siano stati parzialmente coltivati
e qualche terreno incolto si sia avuto tra 1337 e 1355 si noti
a Maranola, Cassio, S. Maria la Noce e nei pressi di S. Angelo
dei Marzi.
La coltivazione di grano e di lino è poco evidenziata nella
documentazione. Ma questi prodotti dovevano essere di più
ampia coltura, in quanto l'esazione delle decime nella diocesi
di Gaeta, attestata ancora nel 1576 nella visita pastorale del
vescovo Pietro Lunel, è notoriamente legata alla produzione
cerealicola. In particolare nel documento è annotata la
riscossione per le coltivazioni di grano e di lino.
In età medievale numerose sono le testimonianze del Codex
e della Rubrica delle Carte sull'esistenza di acque e fontane
pubbliche. Tra i principali corsi sono ricordati il fiumicello
friziolo, il fiumicello S. Croce a Gianola, la fontana della Madonna
della Palomba, il torrente di Rialto, e tra le fontane quella
di S. Remigio.
Formia:
fontana di S. Remigio. Disegno di P. Mattej.
Formia:
fontana di S. Remigio. Particolare del mascherone![](imascheronesremigio56.gif)
Anche
i toponimi registrano la presenza di acque: Acqualonga, Acquatraversa,
Piscinola, fonte S. Giovanni (Maranola), Acquarolo, Alla fontana
(Maranola).
Tali acque, alcune a semplice regime torrentizio, erano canalizzate
per finalità irrigue e per evitare impaludamenti, come
nel caso della realizzazione di una chiusa detta di "S. Raymo"
(RdC, 134).
Per quanto riguarda l'acquedotto romano di Mola la captazione
avveniva da sorgenti prossime agli archi, i cui resti sono ancora
in situ.
Formia:
Torre di Mola
Il sistema di acque abbondanti permetteva la collocazione di industrie
di trasformazione quali mulini e frantoi, segnalati dal Codex
già a partire dal IX secolo. Ben cinque mulini sono attestati
a Mola nel 1386 (RdC, 103), oltre a quelli situati strategicamente
a servizio del cenobio di S. Erasmo. Frantoi sono disseminati
sul territorio: S. Angelo dei Marzi, borgo di Castellone, Mola,
Gianola e lungo la collina, in particolare a Ponzanello, Orsano,
Trivio, Maranola. In genere veniva collocata nei pressi delle
zone a più alta produzione.
Un discorso a parte merita l'attività estrattiva. A nord
dell'attuale stazione ferroviaria vi era una cava per l'argilla
utilizzata nella fabbricazione di mattoni, mentre a Piroli vi
era una cava per l'estrazione di pietre (C.D.C., I, XLVI).
La
proprietà tra Chiesa e feudalità.
A partire dal XV secolo la proprietà formiana ecclesiastica
si assottigliava a causa della spoliazione operata dalle famiglie
dei nuovi ceti emergenti attraverso il meccanismo delle usurpazioni.
tra l'altro nelle concessioni enfiteutiche si prevedeva la restituzione
delle spese sostenute dagli affittuari per il miglioramento dei
fondi agricoli, cosicché il cenobio di S. Erasmo si vedeva
costretto a cedere le proprietà agli stessi affittuari
per poter rimborsare quelle spese.
Per sopperire agli svantaggi causati dal meccanismo si stipulavano
enfiteusi perpetue a canoni bassi, ma questi canoni erano soggetti
nel volgere di qualche anno ad una rapida svalutazione.
Il sistema maggiormente utilizzato dalle famiglie aristocratiche
di antica e nuova ricchezza era l'insinuazione dei membri del
proprio clan familiare tra le file del clero, soprattutto nei
capitoli della cattedrale, delle chiese collegiate e nei capitoli
dei cenobi. I beni dei capitoli venivano alienati alla famiglie
di appartenenza o comunque gestiti favorendo la dinastia di provenienza
o quella affine. L'incremento del patrimonio familiare era così
affidato ad una sorta di circolo virtuoso, con l'intrinseca complicità
del clero.
I membri delle famiglie più in vista mostravano il loro
status con la creazione di chiese e cappelle di patronato privato.
Il patronato pubblico veniva costituito quando l'intera struttura
sociale nel suo complesso spingeva per una visibilità cittadina
del patronato. Il caso più evidente è il patronato
erasmiano sancito negli statuti di Gaeta.
Questo fenomeno è anche ben attestato tra le famiglie della
borghesia rurale, che desideravano evidenziare la loro differenziazione
rispetto al resto della popolazione, fondendo il loro auspicio
con la ricerca di una devozione particolare.
Tuttavia all'erosione del sistema immobiliare la Chiesa rispondeva
con la diversificazione degli investimenti attraverso operazioni
mobiliari, che favorivano i trasferimenti a proprio vantaggio
(donazioni, carità), inclusi quelli coatti (decime).
Nella citata visita pastorale di Pietro Lunel è annotata
la puntuale riscossione delle decime nelle terre di Maranola e
Castellonorato ed in particolare per le chiese di S. Maria di
Castagneto, S. Nazaro, S. Giovanni a Palazzo, retta dal sacerdote
di Mola Giovanni de Jop, S. Giovanni de Agla.
La riscossione veniva appuntata nei libri delle Rationes decimarum
della Campania, in quanto la diocesi gaetana apparteneva alla
regione ecclesiastica campana.
Il sistema della decima si legava strettamente alla coltivazione
della terra tanto che poteva ben denominarsi decima prediale.
Tra V e X secolo vigeva la partizione in quattro destinazioni:
una parte al vescovo, una parte al clero, una per la carità
e una per il restauro degli edifici.
Dopo questo periodo i 3/4 delle decime venivano controllati dai
monasteri o dai vescovi, che li annoveravano tra i redditi patrimoniali
come fossero redditi spettanti per il possesso delle terre derivanti
da diritti di giurisdizione.
La più antica esazione di decima nella diocesi di Gaeta
dopo il X secolo riguarda il cenobio di S. Erasmo (RdC, 9) e precede
quella di S. Caterina di Gaeta ricordata nel 1202. Per il cenobio
castellonese i documenti informano del contenzioso aperto nel
1276 (RdC, 21) sull'attribuzione della decima. Anche la città
di Gaeta si oppose al pagamento della decima nel 1345 (C.D.C.,
III (I), CCCCLXXI), proponendo appello contro la decisione assunta
in prima istanza.
Tale tassazione più che sulle persone gravava sulle terre
comprese nei confini della parrocchia per assicurare una più
facile esazione.
Con lo spostamento della sede papale ad Avignone e durante lo
scoppio dello scisma d'Occidente le aristocrazie laiche (patriziati
urbani, piccola nobiltà rurale) accentuarono la penetrazione
nelle strutture economiche ecclesiastiche attraverso diritti di
patronato, influenza nei e sui monasteri maschili e femminili,
sulle cappellanie. Tale stato veniva facilitato dalla crisi di
governo dei monasteri, che lasciarono ampio spazio alle forze
emergenti laiche nel controllo su prebende e benefici.
Ma a partire dal XV secolo si cominciava a notare un'inversione
di tendenza e la proprietà ecclesiastica, pur erosa era
ancora quantitativamente e qualitativamente consistente. È
il periodo nel quale il cenobio di S. Erasmo passava nelle mani
dei Benedettini di Monte Oliveto Maggiore (1491) e a Mola le strutture
economiche erano in potere della nuova borghesia mercantile.
Nella seconda metà del XVI secolo si assisteva al processo
di recupero e rafforzamento della proprietà ecclesiastica.
Si accrebbe la produttività delle terre, annullando le
antiche concessioni enfiteutiche poco redditizie e sostituendole
con locazioni triennali o sessennali, elevando i canoni e rivendicando
censi e diritti di decima caduti in disuso. Questo provocò
sovente lo scontro con la feudalità, che aveva usucapito
nel corso del tempo parte dei beni ecclesiastici immobiliari di
natura agraria. E non era, pertanto, un caso che vennero originati
lunghi procedimenti giudiziari soprattutto con il clero secolare.
L'economia di Mola e Castellone contribuì ad incrementare
le entrate della Chiesa nelle varie articolazioni: mensa vescovile,
mense dei capitoli, monasteri, patronati, confraternite...
Il Regno di Napoli, di fronte a questa nuova impennata di introiti
ecclesiastici nel XVI secolo, non riuscì ad agire fiscalmente
per colpire queste nuove redditualità. Anche il fenomeno
dell'assegnazione delle commende, soprattutto abbaziali come per
S. Erasmo, rimaneva un'esclusiva pontificia. Le commende erano
devolute a personalità di grado più elevato della
Curia romana soprattutto se di rilevante consistenza economica.
Al cardinal Giuliano della Rovere fu affidata la commenda di S.
Erasmo che mantenne fino al 1491. Il cenobio castellonese doveva
considerarsi di tenore medio-alto.
A completare il quadro concorreva anche l'istituto del giuspatronato,
consistente nel diritto di nomina o presentazione di un chierico
all'autorità ecclesiastica per il conferimento di un beneficio
vacante su patronati ecclesiastici o laicali. A Mola e Castellone,
così come nei centri collinari di Maranola e Castellonorato
erano presenti patronati laicali sia quelli squisitamente privati
ma anche quelli pubblici detenuti dalle universitates civium.
Altra forma di indubbio interesse era costituita dalla tutela
o patronato regio su chiese per insinuare nei "luoghi"
della giurisdizione ecclesiastica strumenti e persone legate al
potere statale.
Lo sviluppo dell'istituto del patronato tra XV e XVI secolo era
connesso al consolidamento della nuova borghesia cittadina e rurale,
che si era fatta largo edificando nuovi luoghi di culto, come
nel borgo di Castellone o nelle campagne. L'aristocrazia riservava
per sè il diritto di seggio.
Un ulteriore fenomeno che diede impulso alla diversificazione
delle attività economiche è stata la costituzione
di censi, il cui primo esempio pervenuto è del 1276 (RdC,
21). Questa tipologia tra fine Medioevo e XVI secolo ebbe notevole
impulso. È interessante notare l'oscillazione dei tassi
applicati, spesso al limite dell'usura, così come si evince
dagli scarsi documenti tra XV e XVI secolo.
L'interconnessione tra economia laica ed ecclesiastica nel territorio
formiano è così forte che qualsiasi analisi non
può prescindere da una visione d'assieme delle problematiche
socio-economiche.
Un discorso a parte, però, può e deve essere effettuato
per la tassazione civile. L'imposizione fiscale era preceduta
dalle rilevazioni costituite dai censimenti finalizzati all'applicazione
del focatico. La leva fiscale colpiva la famiglia piuttosto che
la persona.
Nel "Liber focorum" (tra 1449 e 1456) sono assegnati
fuochi 76 a Castellonorato, corrispondenti a due once, e fuochi
163 a Maranola con sette once da prelevarsi con Castellonorato.
Rispetto alla tassazione precedente appare una lieve diminuzione,
che rispecchia un probabile decremento demografico.
Alla separazione di Castellonorato da Maranola sancita nel 1428
faceva seguito un contenzioso sull'interpretazione dei confini
stabiliti, per cui è probabile che l'esazione avvenisse
con le due università ancora legate nel versamento della
tassa, ma divise nella rilevazione.
Il successivo censimento aragonese del 1459 attribuiva fuochi
117 a Castellone e fuochi 63 a Mola. I due nuclei collinari assommati
raggiungono una popolazione più elevata rispetto a quelli
di Mola e Castellone. Pur con le dovute riserve per la tipologia
di rilevazione finalizzata alla tassazione, e pertanto non sempre
compiutamente attendibile, non si può fare a meno di notare
che il fulcro economico di Maranola doveva aver avuto uno slancio
produttivo di tutto rispetto.
Il riflesso del favorevole trend economico maranolese potrebbe
essere colto nell'analisi dell'assetto urbanistico del centro
collinare, in quanto le risorse economiche venivano investite
più facilmente nel campo dell'edilizia.
Una considerazione finale riguarda il numero degli abitanti di
Mola e Castellone.
Per rapportare il focatico al numero degli abitanti occorre assegnare
approssimativamente una media di cinque persone a fuoco. Per tale
effetto Castellone avrebbe 585 abitanti e Mola 315. Riscontri
sull'entità delle popolazioni sono possibili soltanto dopo
l'introduzione degli status animarum e del catasto onciario, in
età più tarda.
Così rivestono particolare interesse le notizie desumibili
della documentazione archivistica. Nella Rubrica delle Carte si
incontrano due documenti, l'uno datato 1316 (RdC, 42), l'altro
1339 (RdC, 59). Il manoscritto del 2 maggio 1339, VII indizione,
offre stime più attendibili. Gli enfiteoti che sottoscrivono
il lodo del 1339 sono 102/105.
Se si moltiplica al numero di enfiteoti, con lo status di capifamiglia,
il numero di cinque componenti per nucleo familiare secondo il
nucleo convenzionale del focatico, si raggiunge la cifra di 510/525
abitanti. Se si aggiungono i mercatores ed i membri delle corporazioni
degli artigiani, ma non i componenti dell'alto clero, gli aristocratici
ed i pauperes (non conteggiati ai fini del focatico) si è
prossimi alle 585 unità indicate dal censimento aragonese
del 1459.
Tra il 1339 ed il 1459 sembra assente un incremento demografico.
Ma questo è un dato soltanto apparente. La peste del 1348
ed il connesso declino demografico del XIV secolo avevano sconvolto
le regioni d'Europa e d'Italia con, sembra, la perdita di quasi
un terzo della popolazione. La pestilenza aveva accelerato un
andamento demografico negativo iniziato nella seconda metà
del XIII secolo.
Raggiunse anche il Regno di Napoli, colpendo anche il Formianum:
due soli contratti vennero stipulati tra il 1347 ed il 1351. A
questi dati bisogna anche aggiunte le perdite dovute alle guerre.
Infatti nel 1347 Castellone era stato assaltato e conquistato:
"Eoque Anno [1347 n.d.A.] de mense Maii Comes Fundorum ivit
supra Molas, et Castellonum, cum plusquam 500. militibus, et duobus
mille peditibus, et dissipavit et destruxit eam".
La contemporanea ripresa demografica (tuttavia frenata dall'alto
tasso di mortalità infantile e dai bassi valori della vita
media del tempo) ed economica del sec. XV permise ai Castellonesi
di ascendere nell'arco di poco più di un secolo (stima
coincidente con la ripopolazione di altri centri italiani) al
numero contabilizzato nel censimento aragonese.
Di altri centri del Regno napoletano siti lungo il Lazio costiero
non esistono computi del numero di abitanti anteriormente alla
prima metà del XV secolo, per cui il documento riveste
particolare importanza nello studio delle vicende demografiche
tardo medievali.
Il
saggio di R. Frecentese è tratto da " Storia di Formia
illustrata (a cura di M. D'Onofrio). Vol. II: Età medievale".
Sellino editore, Pratola sannita, 2000, pp.181-202
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